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venerdì 26 novembre 2021

Il ricordo dei Ferrovieri Caduti nella Grande Guerra.

 ARCHIVIO

Il Treno del Milite Ignoto

 

Mario Pietrangeli

Michele Antonilli

Nel 1920, l'allora colonnello Giulio Douhet, sulla scorta di analoghe iniziative già attuate in Francia ed in altri Paesi coinvolti nella "Grande Guerra", propose per primo in Italia di onorare i caduti italiani le cui salme non furono identificate con la creazione di un monumento al Milite Ignoto a Roma.

Venne quindi deciso di creare la tomba del Milite Ignoto nel complesso monumentale del Vittoriano in piazza Venezia a Roma.

Sotto la statua della dea Roma, sarebbe stata tumulata la salma di un soldato italiano sconosciuto, selezionata tra quelle dei caduti della Prima guerra mondiale.

La scelta venne affidata a Maria Bergamas, madre del volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato.

 

Il 26 ottobre 1921, nella Basilica di Aquileia, Maria scelse il corpo di un soldato tra undici altre salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte (San Michele, Alto Isonzo, Cadore, Basso Piave, Asiago, Montello, Pasubio, Tonale, Grappa, Gorizia, Rovereto).

La donna venne posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime seguita da quattro decorati di medaglia d’oro che l’accompagnavano nella scelta, (il generale Paolini, il colonnello Marinetti, l’on. Paolucci e il tenente Baruzzi), non riuscì a proseguire nella ricognizione e gridando il nome del figlio si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta.

La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati di Medaglia d'oro al Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato. Le altre dieci salme rimaste ad Aquileia furono tumulate nel cimitero di guerra che circonda il tempio romano.

Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Roma, passando per Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna, Pistoia, Prato, Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto a velocità moderatissima in modo che presso ciascuna stazione la popolazione avesse modo di onorare il caduto simbolo. Furono molti gli Italiani che attesero, a volte anche per ore, il passaggio del convoglio al fine di poter rendere onore al Caduto. Il treno infatti si fermò praticamente in tutte le stazioni.

Il Treno Speciale, approntato a Trieste, si componeva di diciassette vagoni, due dei quali destinati alle autorità ed alla scorta d’onore, mentre i restanti vennero utilizzati per caricare gli omaggi floreali.

A tale riguardo, resta significativa la cronaca  inviata dal corrispondente de  “ La nazione”, presente a bordo del treno. Da “ La nazione” del 1°  novembre  1921,: “Da Bologna a Firenze. Quando siamo partiti da Bologna già  cominciava ad albeggiare, ma noi avevamo ancora negli occhi la visione delle fiaccole rosse  nell’ombra di Castelmaggiore ed il lampo dei razzi tricolori che svegliarono nella Piazza di Bologna il  campanone del Podestà ed il pellegrinaggio ininterrotto dei bolognesi alla salma inviolabile. Così  quando il sole ci sorprese a Casalecchio di Reno avemmo l’impressione di svegliarci da un sonno  pieno di tristezza e senza affanno. A Casalecchio di Reno le donne piangono in ginocchio e gli uomini,  allineati curvi, assistono al passaggio della salma nel sole che ci sorride dai monti dall’Appennino. Qui  a Casalecchio c’è il sindaco comunista Vito Sandri che, malgrado l’ordine di Zanardi che gli proibiva  di partecipare alla cerimonia, è sceso ugualmente alla stazione, ed è commosso come gli altri. A  Marzabotto, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino ha un mazzo di ciclamini da deporre sulla bara. A Riola, un mutilato di guerra, certo  Vitali, colpito nella spina dorsale, s’è fatto portare  dal paese di  Gaggio Montano in un carrettino. Ai Bagni della Porretta, il sindaco  socialista Cinotti non voleva  consegnare la bandiera, è sceso egli stesso  attratto dal fascino del rito..col largo cappello a cencio, i  grigi baffi spioventi, a pipa in bocca, le mani in tasca, addossato alla porta della lampisteria vorrebbe   darsi un’aria  disinvolta, e non ci riesce. Quando passa la bara si commuove anche lui, si  scopre il  capo, curva la fronte come investito dall’onda di commozione ed una pioggia di fiori. A Pistoia le  accoglienze sono trionfali: la stazione non riesce a contenere l’enorme folla tra cui sono tutte le  autorità e tutti i rappresentanti delle associazioni cittadine. Lunghe file di donne recano  fiori e  corone: la musica suona, tra la commozione generale, l’Inno del Piave; il clero è al completo e la  benedizione della salma avviene  mentre moltissimi si inginocchiano. Una madre piange  disperatamente presso la bara mentre un mutilato dalle gambe, certo Ricci Domenico, che si è  trascinato in una carrozzella fino alla stazione, lancia fiori e ha gli occhi pieni di lacrime. Ripartiamo  da Pistoia alle 12,45…..” .

Dall’esame delle vecchie foto è possibile distinguere la “doppia” di macchine di testa, seguita da un bagagliaio, da due vetture comunemente definite “centoporte”, da un carro a sponde basse per il trasporto degli omaggio floreali, seguito da quello del milite ignoto e da un secondo carro analogo al primo, e quindi alcune altre vetture che non è stato possibile identificare dalle foto sgranate dell’epoca.

Il vagone, sul quale venne posto il soldato ignoto avvolto nel tricolore nel pomeriggio del 28 ottobre era stato realizzato modificando un normale carro merce a sponde, seguendo il progetto redatto dall’architetto triestino Cirilli;

Esso fu costruito in modo che la bara fosse visibile dalla folla da ogni lato il cielo del carro era costituito da un pesante drappo nero sorretto da otto colonne in legno, verniciate in nero ed oro; sul fianco del carro era apposta la scritta MCMXV- MCMXVIII (gli anni del conflitto), e la dizione, tratta da un verso dantesco: “L’ombra sua torna che era dipartita”. La cerimonia ebbe il suo epilogo nella Capitale. Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re d’Italia Vittorio Emanuele III in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro fu portato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. La salma venne posta nel monumento il 4 novembre 1921. L'epigrafe riporta la scritta Ignoto Militi e gli anni di inizio e fine del conflitto.  Nel corso degli anni ‘30 il feretro del Milite Ignoto venne traslato nella cripta interna del Vittoriano denominata sacello del Milite Ignoto dove tutt'ora si trova. Parti della cripta e del sepolcro sono realizzate con materiali lapidei provenienti dalle montagne teatro degli scontri della prima guerra mondiale (tra cui il Grappa e il Carso). Nel 2011, dal 29 ottobre al 2 novembre, in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia e del novantesimo anniversario della traslazione della salma da Aquileia a Roma, vi fu la rievocazione storica del viaggio in treno.

  

Nel 2011, dal 29 ottobre al 2 novembre, in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia e del novantesimo anniversario della traslazione della salma da Aquileia a Roma, vi fu la rievocazione storica del viaggio in treno.



 

Il Monumento ai Ferrovieri Caduti nella  Prima Guerra Mondiale

 

 

In ricordo dei ferrovieri caduti fu eretto un monumento nel recinto esterno del palazzo della Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato, lo storico edificio “Villa Patrizi” in Piazza della Croce Rossa 1, a Roma. L’opera, realizzata dallo Scultore Arturo Dazzi, è costituita da due statue in bronzo (proveniente dai campi di battaglia) fuse entrambe in un solo getto:

Quella inferiore, alta 3,20 m, rappresenta il ferroviere;

Quella superiore, alta 4,50 m, rappresenta il combattente;

Il basamento misura in elevazione 6,95 m e l’altezza totale del monumento è di circa 12 m;

L’alto stilobate reca incisi sulle sue facce i nomi dei ferrovieri caduti.



monumento ai ferrovieri caduti nella  Prima Guerra Mondiale


 


Arturo Dazzi Autore del Monumento ai Ferrovieri Caduti

Arturo Dazzi nacque a Carrara nel 1881. Rimasto orfano del padre, proprietario di cave e di un laboratorio per la lavorazione del marmo, giovanissimo iniziò lavorare nella bottega dello zio come apprendista scalpellino; qui acquisì quasi subito una certa manualità supportata anche da una discreta percezione artistica e da un notevole senso delle proporzioni, che lo indussero quasi come percorso segnato ad iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Carrara dove seguì i corsi di Lio Gangeri. Dazzi dopo il diploma, in seguito all'acquisizione di una borsa di studio triennale, nel 1901 si trasferì a Roma e iniziò quasi subito, osservando con partecipazione ed interesse alle novità culturali sia nel campo della scultura che in quello della pittura del primo novecento, a ricevere riconoscimenti artistici. Una delle sue prime opere, I costruttori, fu acquistata dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, e nel 1908 fu chiamato per realizzare la statua del Cardinale De Luca, che si può osservare ancora oggi dentro il Palazzo di Giustizia di Roma. Nell'opera complessiva del Dazzi, specialmente quella prima della prima guerra mondiale e il decennio dopo, furono preminenti tematiche di carattere sociale di stampo verista, forse influenzato da scultori come il belga Constantin Meunier, il francese Émile-Antoine Bourdelle e il ticinese Vincenzo Vela. Negli anni 1931-32 scolpisce il colosso marmoreo di Piazza della Vittoria a Brescia, il Bigio, così come fu popolarmente chiamato, benché dovesse rappresentare l'Era fascista. Il colosso, alto 7.50 metri (nove con lo zoccolo), al tempo definito come l'apice dell'abilità espressiva dell'artista, fu rimosso nel 1945 poiché additato come simbolo del regime e fu trasportato in un magazzino comunale, dove si trova tuttora. Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale lavorò, con Gaetano Rapisardi, al progetto del Mausoleo di Ciano a Livorno. La statua di 13 metri commissionata da Mussolini, fu realizzata solo in parte e rimase sull'isola di Santo Stefano, nell'arcipelago di La Maddalena, non giungendo mai a destinazione a causa della caduta del regime. Dal 1948 al 1950 ottenne la cattedra all'Accademia di Belle Arti di Carrara, nella sezione scultura ma, grazie alla notevole fama che lo accompagnava e l'indiscussa competenza, aveva il ruolo di supervisione in tutte le branchie artistiche dell'Accademia. Ebbe fra gli altri come allievo il pittore Gualtiero Passani (Carrara 1926), fondatore del "Sodalizio Artistico delle Arti Figurative", con il quale ebbe una costante frequentazione negli anni successivi, principalmente nella villa che il Dazzi possedeva nei pressi del Cinquale, dove era locato il suo studio. L'ultima sua opera è il Dante di Mulazzo (1966), posto in fregio alle celebrazioni dantesche del 1965. Collocata proprio sotto la cosiddetta "Torre di Dante", la statua, in marmo bianco di Carrara, fu commissionata dal dantista (allora sindaco del borgo) Livio Galanti, cui è dedicato il Museo dantesco lunigianese.

 

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