ARCHIVIO
Il Treno del
Milite Ignoto
Mario Pietrangeli
Michele Antonilli
Nel 1920, l'allora colonnello Giulio Douhet, sulla scorta di analoghe iniziative già attuate in Francia ed in altri Paesi coinvolti nella "Grande Guerra", propose per primo in Italia di onorare i caduti italiani le cui salme non furono identificate con la creazione di un monumento al Milite Ignoto a Roma.
Venne quindi deciso di creare la tomba del Milite
Ignoto nel complesso monumentale del Vittoriano in piazza Venezia a Roma.
Sotto la statua della dea Roma, sarebbe stata
tumulata la salma di un soldato italiano sconosciuto, selezionata tra quelle
dei caduti della Prima guerra mondiale.
La scelta venne affidata a Maria Bergamas, madre
del volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato
dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in
combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato.
Il 26 ottobre 1921, nella Basilica di Aquileia, Maria
scelse il corpo di un soldato tra undici altre salme di caduti non
identificabili, raccolti in diverse aree del fronte (San Michele, Alto Isonzo,
Cadore, Basso Piave, Asiago, Montello, Pasubio, Tonale, Grappa, Gorizia,
Rovereto).
La donna venne posta di fronte a undici bare
allineate, e dopo essere passata davanti alle prime seguita da quattro decorati
di medaglia d’oro che l’accompagnavano nella scelta, (il generale Paolini, il
colonnello Marinetti, l’on. Paolucci e il tenente Baruzzi), non riuscì a
proseguire nella ricognizione e gridando il nome del figlio si accasciò al
suolo davanti a una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone
e, accompagnata da reduci decorati di Medaglia d'oro al Valore Militare e più
volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato. Le
altre dieci salme rimaste ad Aquileia furono tumulate nel cimitero di guerra
che circonda il tempio romano.
Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Roma,
passando per Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna,
Pistoia, Prato, Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto a velocità moderatissima in
modo che presso ciascuna stazione la popolazione avesse modo di onorare il caduto
simbolo. Furono molti gli Italiani che attesero, a volte anche per ore, il
passaggio del convoglio al fine di poter rendere onore al Caduto. Il treno
infatti si fermò praticamente in tutte le stazioni.
Il Treno Speciale, approntato a Trieste, si componeva
di diciassette vagoni, due dei quali destinati alle autorità ed alla scorta
d’onore, mentre i restanti vennero utilizzati per caricare gli omaggi floreali.
A tale riguardo, resta significativa la cronaca inviata dal corrispondente de “ La nazione”, presente a bordo del treno. Da
“ La nazione” del 1° novembre
1921,: “Da Bologna a Firenze.
Quando siamo partiti da Bologna già
cominciava ad albeggiare, ma noi avevamo ancora negli occhi la visione
delle fiaccole rosse nell’ombra di
Castelmaggiore ed il lampo dei razzi tricolori che svegliarono nella Piazza di
Bologna il campanone del Podestà ed il
pellegrinaggio ininterrotto dei bolognesi alla salma inviolabile. Così quando il sole ci sorprese a Casalecchio di
Reno avemmo l’impressione di svegliarci da un sonno pieno di tristezza e senza affanno. A
Casalecchio di Reno le donne piangono in ginocchio e gli uomini, allineati curvi, assistono al passaggio della
salma nel sole che ci sorride dai monti dall’Appennino. Qui a Casalecchio c’è il sindaco comunista Vito
Sandri che, malgrado l’ordine di Zanardi che gli proibiva di partecipare alla cerimonia, è sceso
ugualmente alla stazione, ed è commosso come gli altri. A Marzabotto, ogni uomo, ogni donna, ogni
bambino ha un mazzo di ciclamini da deporre sulla bara. A Riola, un mutilato di
guerra, certo Vitali, colpito nella
spina dorsale, s’è fatto portare dal
paese di Gaggio Montano in un
carrettino. Ai Bagni della Porretta, il sindaco
socialista Cinotti non voleva
consegnare la bandiera, è sceso egli stesso attratto dal fascino del rito..col largo
cappello a cencio, i grigi baffi
spioventi, a pipa in bocca, le mani in tasca, addossato alla porta della
lampisteria vorrebbe darsi un’aria disinvolta, e non ci riesce. Quando passa la
bara si commuove anche lui, si scopre
il capo, curva la fronte come investito
dall’onda di commozione ed una pioggia di fiori. A Pistoia le accoglienze sono trionfali: la stazione non
riesce a contenere l’enorme folla tra cui sono tutte le autorità e tutti i rappresentanti delle associazioni
cittadine. Lunghe file di donne recano
fiori e corone: la musica suona, tra
la commozione generale, l’Inno del Piave; il clero è al completo e la benedizione della salma avviene mentre moltissimi si inginocchiano. Una madre
piange disperatamente presso la bara
mentre un mutilato dalle gambe, certo Ricci Domenico, che si è trascinato in una carrozzella fino alla
stazione, lancia fiori e ha gli occhi pieni di lacrime. Ripartiamo da Pistoia alle 12,45…..” .
Dall’esame delle vecchie foto è possibile
distinguere la “doppia” di macchine di testa, seguita da un bagagliaio, da due vetture comunemente definite
“centoporte”, da un carro a sponde basse per il trasporto degli omaggio
floreali, seguito da quello del milite ignoto e da un secondo carro analogo al
primo, e quindi alcune altre vetture che non è stato possibile identificare
dalle foto sgranate dell’epoca.
Il vagone, sul quale venne posto il soldato ignoto
avvolto nel tricolore nel pomeriggio del 28 ottobre era stato realizzato modificando
un normale carro merce a sponde, seguendo il progetto redatto dall’architetto
triestino Cirilli;
Esso fu
costruito in modo che la bara fosse visibile dalla folla da ogni lato il cielo
del carro era costituito da un pesante drappo nero sorretto da otto colonne in
legno, verniciate in nero ed oro; sul fianco del carro era apposta la scritta
MCMXV- MCMXVIII (gli anni del conflitto), e la dizione, tratta da un verso dantesco: “L’ombra sua torna che era
dipartita”. La cerimonia ebbe il suo epilogo nella Capitale. Tutte le
rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il
Re d’Italia Vittorio Emanuele III in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti
mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro
fu portato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. La salma
venne posta nel monumento il 4 novembre 1921. L'epigrafe riporta la scritta Ignoto
Militi e gli anni di inizio e fine del conflitto. Nel corso degli anni ‘30 il feretro del Milite
Ignoto venne traslato nella cripta interna del Vittoriano denominata sacello
del Milite Ignoto dove tutt'ora si trova. Parti della cripta e del sepolcro
sono realizzate con materiali lapidei provenienti dalle montagne teatro degli
scontri della prima guerra mondiale (tra cui il Grappa e il Carso). Nel 2011, dal 29 ottobre al 2 novembre, in
occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia e del
novantesimo anniversario della traslazione della salma da Aquileia a Roma, vi
fu la rievocazione storica del viaggio in treno.
Nel 2011, dal
29 ottobre al 2 novembre, in occasione delle celebrazioni per i 150 anni
dell'Unità d'Italia e del novantesimo anniversario della traslazione della
salma da Aquileia a Roma, vi fu la rievocazione storica del viaggio in treno.
Il
Monumento ai Ferrovieri Caduti nella
Prima Guerra Mondiale
In ricordo dei ferrovieri caduti fu eretto un
monumento nel recinto esterno del palazzo della Direzione Generale delle
Ferrovie dello Stato, lo storico edificio “Villa Patrizi” in Piazza della Croce
Rossa 1, a Roma. L’opera, realizzata dallo Scultore
Arturo Dazzi, è costituita da due statue in bronzo (proveniente
dai campi di battaglia) fuse entrambe in un solo getto:
Quella inferiore, alta 3,20 m, rappresenta il
ferroviere;
Quella superiore, alta 4,50 m, rappresenta il
combattente;
Il basamento misura in elevazione 6,95 m e l’altezza
totale del monumento è di circa 12 m;
L’alto stilobate reca incisi sulle sue facce i nomi dei
ferrovieri caduti.
monumento
ai ferrovieri caduti nella Prima Guerra
Mondiale
Arturo Dazzi Autore del Monumento ai Ferrovieri
Caduti
Arturo Dazzi
nacque a Carrara
nel 1881. Rimasto orfano del padre, proprietario di cave e di un laboratorio
per la lavorazione del marmo, giovanissimo iniziò lavorare nella bottega dello zio
come apprendista scalpellino; qui acquisì quasi subito una certa
manualità supportata anche da una discreta percezione
artistica e da un notevole senso delle proporzioni, che lo indussero quasi come
percorso segnato ad iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Carrara
dove seguì i corsi di Lio Gangeri. Dazzi dopo il diploma, in seguito
all'acquisizione di una borsa di studio triennale, nel 1901 si trasferì a Roma e iniziò quasi
subito, osservando con partecipazione ed interesse alle novità culturali sia
nel campo della scultura che in quello della pittura
del primo novecento, a ricevere riconoscimenti artistici. Una delle sue prime
opere, I costruttori, fu acquistata dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna,
e nel 1908
fu chiamato per realizzare la statua del Cardinale De Luca, che si può
osservare ancora oggi dentro il Palazzo di Giustizia di Roma. Nell'opera
complessiva del Dazzi, specialmente quella prima della prima guerra mondiale e il decennio dopo,
furono preminenti tematiche di carattere sociale di stampo verista,
forse influenzato da scultori come il belga Constantin Meunier, il francese Émile-Antoine Bourdelle e il ticinese
Vincenzo Vela.
Negli anni 1931-32 scolpisce il colosso
marmoreo di Piazza della Vittoria a Brescia,
il Bigio,
così come fu popolarmente chiamato, benché dovesse rappresentare l'Era
fascista. Il colosso, alto 7.50 metri (nove con lo zoccolo), al tempo
definito come l'apice dell'abilità espressiva dell'artista, fu rimosso nel 1945 poiché additato come
simbolo del regime e fu trasportato in un magazzino comunale, dove si trova
tuttora. Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale lavorò, con Gaetano
Rapisardi, al progetto del Mausoleo di
Ciano a Livorno. La statua di 13 metri commissionata da Mussolini, fu
realizzata solo in parte e rimase sull'isola di Santo Stefano, nell'arcipelago
di La Maddalena, non giungendo mai a destinazione a causa della caduta del regime.
Dal 1948 al 1950 ottenne la cattedra all'Accademia di Belle Arti di Carrara,
nella sezione scultura ma, grazie alla notevole fama che lo accompagnava e
l'indiscussa competenza, aveva il ruolo di supervisione in tutte le branchie
artistiche dell'Accademia. Ebbe fra gli altri come allievo il pittore Gualtiero Passani (Carrara
1926), fondatore del "Sodalizio
Artistico delle Arti Figurative", con il quale ebbe una
costante frequentazione negli anni successivi, principalmente nella villa che
il Dazzi possedeva nei pressi del Cinquale, dove era locato il suo studio. L'ultima
sua opera è il Dante di Mulazzo (1966), posto in fregio alle celebrazioni dantesche
del 1965.
Collocata proprio sotto la cosiddetta "Torre di Dante", la statua, in
marmo bianco di Carrara, fu commissionata dal dantista (allora sindaco del
borgo) Livio Galanti, cui è dedicato il Museo dantesco lunigianese.
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