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sabato 2 novembre 2019

La Crisi Armistiziale. Note a margine 1


APPROFONDIMENTI
Progetto 2019. Materiali


L'uscita dell'Italia dalla guerra dichiarata il 10 giugno 1940 con la firma, il 3 settembre  1943 a Cassibile del cosiddetto 'armistizio corto si impose come una necessita prima militare poi morale per porre fine ad una guerra senza più speranze di vittoria, senza alcuna possibilità, nemmeno remota, di conseguire gli obbiettivi politici e strategici che si volevano ottenere. Non è qui la sede di disquisire dell'errore alleato di imporre la resa incondizionata, errore fuori d'ogni logica strategica e militare, oltre che irrazionale dal punto di vista politico, che fu pagato nei mesi successivi molto duramente dagli Alleati stessi.  Qui si vuole sottolineare l'errore italiano che, data la situazione non fu quello di accettare la resa senza condizioni, ma di aver gestito le trattative armistiziali, i tempi e i modi e l'attuazione dell'armistizio,  con incertezza, con paure, con secondi fini, con riserve mentali, con modi e tempi troppo lunghi per sperare in un successo. L'uscita dalla guerra fu condotta come la guerra: con insipienza, con scarsezza di vedute, con strategie di basso profilo che portarono ad errori su errori fino a sfociare in quella che oggi  rappresenta una delle date più buie della nostra Storia Patria. Tanto che si può affermare che prima di una sconfitta militare e politica, l'8 settembre fu prima di tutto una disfatta morale.[1]
Scrive Stefani "Il tessuto con­nettivo spirituale e morale, faticosamente costruito dal 1848 in poi, subì una lacerazione ampia e profonda, di difficile e lunga rimargi­nazione, le cui cicatrici sono ancora visibili. Il disorientamento fu gra­vissimo e generale. Molti mali morali dei quali l'Italia, a quarant'an­ni dall'evento, continua a soffrire ebbero origine da quella catastro­fe. Il marasma spirituale e morale non fu minore di quello politico e militare. Entrò in crisi la stessa coscienza unitaria della nazione, messa in grave pericolo dalla divisione in due tronconi del territorio nazionale, uno alla mercé degli angloamericani, l'altro dei tedeschi. I valori tradizionali, per la cui affermazione e difesa si erano battute intere generazioni ed avevano sacrificato la vita centinaia di migliaia dì soldati, persero, nella coscienza di molti, credibilità ed affidabili­tà. La sedizione di Mussolini e dei fascisti, decisi a continuare la lotta a fianco dei nazisti, provocò la guerra civile. Nuovamente terra di do­minio degli stranieri, l'Italia sembrò tornare alle forme deteriori del periodo medioevale. La depressione spirituale e morale incentivò l'ob­nubilamento di molte coscienze, indusse a scelte opportunistiche e di comodo, favorì la fuga dalle responsabilità. Nel vuoto spirituale e morale, singoli e gruppi, in buona parte, non seguirono che l'impul­so di interessi contingenti e materiali, ignorando i diritti e le ragioni della Patria, e si ebbe così un processo di dissoluzione che parve inar­restabile, ma che per grazia di Dio non lo fu."

In Italia le forze tedesche erano quantitativamente inferiori a quelle italiane, e così pure all'estero. Come vedremo, addirittura in Albania vi erano sei divisioni italiane contro nessuna tedesca e, dato ancora più rimarchevole, i soldati germanici non superavano le poche centinaia, contro un totale dei soldati italiani  sull'ordine dei 118 mila.
Non si può parlare di superiorità quantitativa tedesca né in Albania, né  altrove. Riferita alla qualità dei mezzi blindo­corazzati e dei mezzi meccanici di trasporto, la superiorità dei tede­schi era invece quasi ovunque di un qualche rilievo, ma occorre ag­giungere che, mentre essi si giovarono sempre con grande profitto del­l'elevato grado di mobilità delle loro unità, raramente sentirono il bi­sogno dì fare ricorso a formazioni massive di carri armati e di mezzi blindati, dei quali si servirono essenzialmente per esercitare minac­ce potenziali utilizzando in genere reparti di livello modesto. Scrive ancora Stefani "Più che alla disponibilità di ottimi carri armati, cannoni, pezzi controcarri e contraerei, la superiorità qualitativa dei tedeschi fu espressa dalla loro abilità tattica, dalla loro flessibilità ordinativa e dalla perfezione del­le loro tecniche d'impiego, comprese quelle di carattere psicologico. Altro fattore della superiorità tedesca fu la capacità del personale mi­litare addetto a compiti territoriali, logistici e burocratici a trasfor­marsi rapidamente, al momento del bisogno, in soldati combattenti, professionalmente non meno abili di quelli inquadrati nelle unità di impiego tattico. Niente di simile nella pletora di scritturali, magazzi­nieri, piantoni, attendenti dell'esercito italiano e neppure nei repar­ti di difesa territoriale o di truppe ai depositi, sebbene non siano mancati, da parte di queste ultime, episodi brillanti di resistenza imperniata su fattori morali più che sostenuta da adeguata perizia pro­fessionale.
 Oltre che possedere un elevato grado di addestramento, le unità tedesche erano state psicologicamente preparate all'aggressio­ne ed al ricorso alla sorpresa, all'astuzia, all'inganno, alla rapidità del­le azioni."

Accanto a questi elementi tecnici, occorre sottolineare che i germanici non rinunciarono all'arma dell'inganno. A riprova che ricorsero in larga misura alla ma­lafede, al ricatto, al tradimento della parola data, al terrore, alla minac­cia ed all'effettuazione di rappresaglie degne di barbari, non è altro che la continuazione di un'alleanza sempre gestita in modo scorretto ed anormale. I punti di de­bolezza delle unità italiane, dislocate in patria e nei territori occupa­ti, erano la grande diluizione degli schieramenti ed il disequilibrato frazionamento dei reparti, aggravati in taluni settori dal frammischia­mento con le unità tedesche. Sebbene diverso da unità ad unità, il mo­rale era generalmente basso e l'improvvisa notizia dell'armistizio non giovò al mantenimento dei vincoli disciplinari nei reparti. Nessuno, in definitiva, può contestare che nel pomeriggio dell'8 settembre la situazione strategica e militare italiana fosse difficile, delicata, incerta e minacciata da gravi pericoli ovunque, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che entro 72 ore, l'esercito italiano, come tale, sarebbe scomparso da tutti i campi di battaglia, ad eccezione della aliquota della 7^ Armata dislocata in Calabria, in Basilicata e nelle Puglie, del­le forze esistenti in Sardegna ed in Corsica e di poche unità che resi­stettero più a lungo nelle isole greche, nonché della divisione "Perugia" che in armi resistette nel sud dell'Albania, fino al 1 ottobre 1943 nella attesa di un aiuto che non venne e che fu abbandonata alla reazione tedesca.
[1] Una tesi sostenuta a  più riprese da Filippo Stefani a cui aderiamo, Cfr.Stefani F., La Storia
della dottrina e degli ordinamenti dell'Esercito Italiano - Dalla Guerra di Liberazione all'Arma atomica tattica, Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'esercito, Ufficio Storico, Roma, 1987,Volume III, Tomo 1°. In particolare vds. il cap. XLII "LA Disfatta. La Resisteza", paragrafo 3, a cui ci si è ispirati per il presente capitolo e a cui, per approfondimento, si rimanda.

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