Molto si è scritto dell’executive order con il quale il presidente statunitense Donald Trump ha provato a vietare l’ingresso negli Usa, per 90 giorni, ai cittadini provenienti da Iran, Iraq, Siria, Yemen, Libia, Sudan e Somalia. Esso è senza dubbio un pessimo messaggio, che ripropone l’equazione “immigrazione uguale terrorismo” e fa il gioco dei reclutatori jihadisti.
Una misura (e una retorica) che vanno ben oltre la securitization di George W. Bush e le sue discusse guerre preventive, poiché non sono qui i governi a venire additati, ma direttamente i cittadini, sulla base del passaporto.
Oltre alle considerazioni di carattere securitario (che dire dei tanti foreign fighters sauditi, giordani, tunisini, marocchini?), questa misura fa male anche a chi non è entrato nella lista: Paesi alleati degli Usa e dunque ancora più esposti al terrore jihadista. A prescindere dalla sua applicazione, il provvedimento ha già avuto e avrà, conseguenze geopolitiche: il Golfo ne è l’epicentro.
Reazioni e silenzi Il cosiddetto “Muslim ban” ha messo a nudo la mancanza di solidarietà inter-araba: certo non una novità. I Paesi arabi risparmiati dal bando, come Arabia Saudita ed Egitto, non hanno commentato la vicenda. Solo il Qatar, forse timoroso per la possibile designazione Usa dei Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica, ha espresso un pacato disappunto. Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha negato la natura anti-islamica del provvedimento, mentre il capo della polizia di Dubai lo ha addirittura elogiato.
Sulla sponda araba del Golfo, attendismo è la parola-chiave nei confronti della nuova Amministrazione: l’ostilità della Casa Bianca verso l’Iran non è necessariamente sinonimo di rapporti distesi con l’Arabia Saudita, data l’imprevedibilità del neo-presidente. Come spesso accade, re Abdullah di Giordania è stato il primo a captare l’attuale zeitgeist internazionale, inanellando prima un incontro con Putin a Mosca e poi uno con Trump a Washington.
Triangolo Usa-Iran-Arabia Di certo, la tensione fra Stati Uniti e Iran è rapidamente salita, non solo perché Teheran compare nella lista dei Paesi colpiti dal bando. Finora è stato “colpo su colpo”: test missilistico effettuato dall’Iran e sanzioni individuali Usa. La Casa Bianca ostenta sfiducia verso l’Iran: un regalo di Trump ai falchi iraniani, alla vigilia del voto presidenziale del 19 maggio, quasi che si volesse favorire l’ascesa “dell’avversario migliore” per andare a uno scontro frontale.
Il presidente americano e il re saudita Salman hanno concordato telefonicamente sull’applicazione rigida dell’accordo nucleare: in campagna elettorale, Trump lo voleva “stracciare” e ciò non converrebbe neanche a Riad. Re Salman non può che auspicare buoni rapporti con gli Usa: sicurezza del Golfo, investimenti e sostegno alla “Vision 2030”, industria della difesa, questione Jasta (la legge che permetterebbe ai parenti delle vittime dell’11 Settembre di citare Riad per danni).
L’approccio di Washington nei confronti della politica regionale dell’Iran è radicalmente cambiato: una rassicurazione per i sauditi. Qualcosa però non quadra tra i due alleati storici. Per esempio, le “safe zones”, da creare in Siria e in Yemen per il ritorno dei rifugiati (e delle quali i sauditi dovrebbero farsi finanziariamente e forse militarmente carico secondo Trump), compaiono nel comunicato stampa della Casa Bianca, e solo in ribattuta nell’agenzia ufficiale di Riad, senza riferimenti allo Yemen.
Incertezze e segnali contrastanti Dato il livello di incertezza, qualcosa si è mosso nel Golfo. Il ministro degli esteri del Kuwait, in visita a Teheran il 25 gennaio, ha recapitato un messaggio dei leader del CCG al presidente Hassan Rouhani: un tentativo per esplorare se vi siano, tra Arabia Saudita e Iran, margini di confronto su temi specifici. In Siria, è ormai la Russia a dare le carte, non più l’Iran, mentre le politiche di Trump sono ancora un rebus.
Solo il tempo dirà se un Golfo meno conflittuale sia davvero possibile: tra molti segnali negativi, vi sono però piccoli indizi in questo senso. L’accordo sulla produzione petrolifera in sede Opec, così come la ripresa dei contatti per la partecipazione dei fedeli iraniani al pellegrinaggio 2017 alla Mecca.
Il neopresidente libanese Michel Aoun ha compiuto un viaggio semi-riparatore a Riad e Doha: gli aiuti militari sauditi all’esercito libanese rimangono bloccati, ma ripartiranno scambi diplomatici, turismo e investimenti. E il Marocco, molto vicino ai sauditi, invierà un ambasciatore in Iran (non accadeva da sette anni).
Yemen, America first? Sicuro è il cambio di approccio degli Usa sullo Yemen, in meno di un mese: cinque attacchi con droni, un discusso raid anti-Aqap con impiego di forze speciali (un soldato Usa morto e vittime civili yemenite), dispiegamento della Uss Cole. Il segretario di Stato Rex Tillerson è ancora “non pervenuto” sul conflitto, mentre gli insorti sciiti, sostenuti anche dall’Iran, sferrano il primo attacco kamikaze contro una nave da guerra saudita nel Bab-el-Mandeb. Interessi incrociati ancora più scivolosi nell’era Trump.
Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Gulf and Eastern Mediterranean Analyst, NATO Defense College Foundation, commentatrice per Avvenire.
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