Prima o poi un incidente doveva succedere. Il 9 febbraio, tre vittime turche e 11 feriti. I russi si sono subito scusati definendolo un “tragico errore” e hanno aperto un’inchiesta. La tensione è peraltro palpabile nei cieli siriani, a pochi chilometri dai confini con la Turchia.
Una corsa convulsa verso la riconquista di Al-Bab, occupata dal sedicente Stato islamico, l’Isis, dal 2014, tra forze concorrenti: l’esercito turco con i ribelli del Free Syrian Army, l’esercito di Assad con l’appoggio dell’aviazione russa e di Hezbollah, le forze curdo-siriane con l’appoggio dei raid americani. Al-Bab - ‘la Porta’- è l’ultimo avamposto dell’Isis sulla via di Raqqa, ‘capitale’ dell’autoproclamato Califfato affollata di civili (erano circa 100.000),ma anche di jihadisti in fuga da Mosul, ivi incluso lo stesso Al-Baghdadi.
Tutti i concorrenti si propongono l’obiettivo di liberare Al Bab da Isis e jihadisti, ma le finalità di ognuno sono diverse. Per la Turchia, è cruciale evitare il ricongiungimento dei territori a ridosso dei propri confini da parte dei combattenti curdo-siriani che considera terroristi al pari dei curdi del Pkk. Sarebbe essenziale per contro farne una ‘area protetta’ ove possano convergere le masse di rifugiati ospitati in territorio turco, una sorta di ‘protettorato’ presidiato per conto di Ankara.
Per Assad, è cruciale allargare il controllo sulle aree a nord di Aleppo, faticosamente riconquistata, al costo di macerie e incalcolabili sofferenze per la popolazione, dopo settimane di aspri combattimenti condotti con i propri alleati. Per i curdo-siriani, si tratta di contrastare le strategie di entrambi completando il controllo delle proprie aree di insediamento, in vista di futuri assetti di larga autonomia se non di indipendenza e di eventuale accorpamento con i curdi di oltre-confine. E per gli americani?
Trump, cambio di scenario Da anni Washington sorregge le offensive delle compagini curdo-siriane considerandole la migliore carta contro Isis e Al Qaida, offrendo anche un limitato appoggio ai ribelli cosiddetti moderati. È ancora valida questa strategia nell’era Trump? La priorità dichiarata è sradicare il terrorismo e le sue potenzialità di attacco in territorio americano. Ma, a prescindere dall’inopinato decreto che, contro ogni buon senso, ha accorpato terrorismo ed islam, Trump si trova a confrontare uno scenario rapidamente cambiato rispetto ai tempi di Obama.
Aleppo è ora sotto il controllo di Damasco, la Russia sta tentando di coordinare le sue iniziative militari con la Turchia, nel contesto dell’intervenuto riavvicinamento, e domina la scena sia militarmente che, dopo le intese di Astana, politicamente. L’Iran ha rafforzato la sua presenza nel territorio. Per contro, la Turchia appare esausta, impegnata com’è sul fronte interno nel duplice fronte anti-gulenista e anti-Pkk, e anche il rapporto con l’Iraq di Al-Abadi sta subendo incrinature. L’operazione Scudo dell’Eufrate non ha il successo sperato.
Trump, modulando il giudizio della prima ora circa l’obsolescenza della Nato, ha rassicurato Erdogan sull’importanza dell’Alleanza per il comune obiettivo di abbattere il terrorismo, e inviato Mike Pompeo ad Ankara in vista della grande sfida di Raqqa (e non solo).
Ma, come conciliare le assicurazioni date ad Ankara sulla creazione di una ‘zona protetta’ nel nord siriano con il sostegno militare ai curdo-siriani? E come gestire i russi, ben intenzionati a favorire il controllo di Assad nel retroterra delle basi aereonavali di Latakia e Umaymin?
E come ‘collaborare’ con Mosca evitando il risentimento degli oppositori moderati che hanno potuto contare per anni sul pur debole appoggio americano? E, soprattutto, quello dei tradizionali alleati del Golfo, che dalle retrovie hanno a lungo foraggiato compagini arabe anche radicali per contrastare l’influenza iraniana in area?
E che fare dell’Iran, ora che l’intesa nucleare sta vacillando? Al-Bab e Raqqa si rivelano un test per la tenuta del triangolo Usa-Russia-Turchia, dal quale in larga parte dipende il futuro della pacificazione in Siria, e per lo stesso ruolo dell’Iran in area.
Ripresa dei negoziati a Ginevra Fra qualche giorno, il 20 febbraio, De Mistura riunirà le parti in causa per la ripresa dei colloqui a Ginevra. A fine gennaio ad Astana, Mosca ha segnato un colpo, non tanto per il rinnovato cessate-il-fuoco garantito questa volta dalla triade Mosca-Ankara-Teheran (sappiamo che i combattimenti continuano, così come gli assedi che secondo il ‘programma di riconciliazione’ di Assad cesseranno solo se i combattenti usciranno disarmati da città e villaggi), quanto per la Dichiarazione finale - non sottoscritta dai belligeranti interni, ma subito sancita dalla risoluzione del CdS 2336 approvata all’unanimità - che prefigura un piano di lavoro per il futuro della Siria. In linea, del resto, con il piano del giugno 2012 di Kofi Annan.
Viene infatti sancito l’impegno alla sovranità, indipendenza, integrità territoriale della Siria come Stato non-confessionale, multietnico, multi-religioso, e a un processo negoziale cui opposizione e governo ugualmente partecipino. Non è scontato. Troppe mappe di smembramento sono apparse in questi mesi. E resta il nodo relativo al destino di Assad che l’opposizione vorrebbe subito rimosso e deferito a un tribunale per crimini di guerra.
A Ginevra, Mosca giocherà ora la sua carta più cruciale per tenere insieme la Siria e assicurare una transizione che non escluda Assad a priori. Basata su ‘zone di sicurezza’ che equivarrebbero a ‘sfere di influenza’. Ai russi la cosiddetta ‘Siria utile’, il retroterra mediterraneo; a turchi e americani il centro-nord fino all’Iraq, assicurando ai curdi autonomia e riconoscimento dell’identità culturale. Una sorta di Sykes-Picotin edizione siriana.
E per quanto riguarda Assad, valga per tutte l’ultima uscita di Boris Johnson che rivela una inedita flessibilità sulla sua partecipazione a future elezioni. L’Iran resta il capitolo più problematico. Né Turchia né Russia sono probabilmente disposti a confrontare Trump, che ha già posto il Paese ‘on notice’ dopo gli ultimi test missilistici, per sostenerne il ruolo in area.
E per contro non ci si può aspettare da Teheran un semplice arretramento che vanifichi una strategia antica di millenni (la direttrice mediterranea). La sessione di Ginevra porterà forse qualche chiarimento, ma non sarà certo quella decisiva.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
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