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mercoledì 20 novembre 2024

Propaganda di Guerra. La Campagna di Russia

 ARCHIVIO



Tutta la stampa italiana riportò sempre notizie di vittorie e conquiste in Russia
In realtà è un esempio di come  si possono vincere tutte le battaglie ma perdere la guerra
Hitler divise le sue forze in tre masse, e non raggiunse nessuno degli obiettivi che si prefiggeva.
Doveva sceglierne uno, ad esempio il Caucaso per il petrolio e poi perseguere gli altri due, la conquista di Mosca e quella di Leningrado


lunedì 18 novembre 2024

Giorgio Madeddu L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. "La Tribuna Illustrata"

 APPROFONDIMENTI


Fig.7) Prima pagina de La Tribuna Illustrata, disegno dello sfilamento sotto l’Arco di Costantino (collezione privata dell’autore)

L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933.

Giorgio Madeddu

 

Il 28 ottobre 1933, in occasione dell’undicesimo anniversario della “Marcia su Roma”, ai decorati al Valore Militare fu concesso il privilegio di inaugurare, nella capitale del Regno, la Via dei Trionfi. La strada, oggi in parte deviata dal suo percorso originario, si sviluppava lungo le attuali via di San Gregorio e via dei Verbiti, passando intorno all’Arco di Costantino andando a confluire nell’attuale via dei Fori Imperiali (già via dell’Impero, inaugurata nel 1932). (Fig. 1)

L’istituto del Nastro Azzurro organizzò la partecipazione all’evento in maniera magistrale, decine di migliaia di decorati confluirono nella Capitale provenienti da ogni parte d’Italia per partecipare a quella che venne anche denominata “Prima Adunata Nazionale”.

Per l’occasione, ad ogni decorato partecipante all’evento fu assegnata una “Tessera – Adunata” nominativa e numerata che costituiva il titolo di viaggio gratuito per recarsi a Roma sui treni ordinari o speciali. Treni speciali partirono da Trieste (N.1), da Bolzano (N.2), da Milano (N. 3), da Torino (N. 4), da Reggio Calabria (N.5) ed infine da Lecce il Numero 6. (Fig. 2, 3, 4).

A tutti i partecipanti, oltre la Tessera, venne distribuita la medaglia commemorativa dell’evento (Fig. 5) e un distintivo rappresentante l’Emblema Araldico dell’Istituto.

Il Popolo d’Italia del 27 ottobre riportava le immagini degli oggetti distribuiti ai decorati. (Fig. 6)

Nella prima mattinata del 28 ottobre, presso la Stazione Termini, iniziarono ad affluire le bandiere delle Forze Armate e i gonfaloni dei Comuni decorati al Valore Militare, migliaia di decorati si ammassarono in perfetto ordine nel piazzale antistante la stazione. Mentre il corteo iniziava a comporsi per lo sfilamento, la banda dei Carabinieri a cavallo, con l’esecuzione della Marcia Reale annunciava l’uscita dalla stazione delle 25 bandiere decorate al Valore che si avviavano per prendere posto alla testa del corteo. I reparti schiarati presentarono le armi e, contemporaneamente, le rappresentanze dei decorati e le folle presenti si posizionavano sull’attenti.

Le bandiere di esercito, marina, aereonautica, truppe coloniali e Comuni decorati al Valore Militare, nel rispettivo ordine di sfilamento, erano precedute da uno squadrone di Carabinieri a cavallo e dalla banda musicale dei Carabinieri, dietro le bandiere seguiva un reggimento di formazione. Il corteo proseguiva con il labaro del “Partito”, scortato del segretario on. Starace e dal vicesegretario on. Marpicati, nonché dalla 112a Legione della Milizia, dietro di questi, il labaro con il Direttorio del Gruppo Medaglie d’Oro e il labaro con il Direttorio del Nastro Azzurro.

Perfettamente inquadrati seguivano i Gruppi degli ufficiali, dei cappellani e dei sottoufficiali decorati. Un plotone di Carabinieri a cavallo chiudeva il corteo.

Il corteo iniziava il percorso dirigendo, tra file festanti di cittadini, verso piazza dell’Esedra passando per via Principessa di Piemonte dove era schierata una centuria di Balilla moschettieri che, al passaggio del corteo, presentava le armi. In via Nazionale, balconi con drappi tricolori e con i colori della Capitale, facevano da cornice a due ali di folla esultante che si prolungavano sino a piazza Venezia.

Al Vittoriano erano schierati, da un lato le Giovani Italiane mentre sul lato opposto trovavano spazio i Marinaretti, i Balilla, gli Avanguardisti e i Giovani Fascisti, di fronte a questi erano schierate oltre 40.000 Camice Nere appartenenti ai gruppi rionali romani. L’ Associazione dei Mutilati, quelle dei Volontari, dei Combattenti, le diverse Associazioni d’Arma nonché le organizzazioni sindacali e dopolavoristische, erano invece schierate sulla via dell’Impero sino alla Basilica di Massenzio, dove era stato eretto il palco reale, addobbato di velluto cremisi e di un baldacchino con la corona reale ricamata in oro. Seguivano le tribune per le autorità, il corpo diplomatico e gli invitati. Sul lato opposto, davanti al palco reale, prendevano posto le madri e vedove dei Caduti in guerra e le donne decorate al Valore Militare.

Prima dell’Arco di Costantino, prendevano posto i presidenti di Senato e Camera, Ministri e Sottosegretari, Senatori e Deputati nonché le alte cariche dello Stato decorate al Valore Militare. Duecento tra labari e fiamme delle sezioni del Nastro Azzurro erano schierati assieme ai componenti del Consiglio nazionale dell’Istituto, ai mutilati, arditi e volontari decorati al Valore Militare.

Attraversato l’Arco di Costantino, il corteo si schierava e si disponeva ad ascoltare il messaggio del Capo del Governo, letto dal Segretario del Partito.

Alle 11,15 gli squilli degli “attenti” avvisavano dell’arrivo del Re che veniva accolto dalle autorità presenti.

Montato a cavallo il Re passava in rassegna i reparti e i gruppi schierati per “saluto al Re!”, la rassegna terminava intorno alle 12.

Conclusa l’inaugurazione della nuova via dei Trionfi, le autorità e il Direttorio del Nastro Azzurro si spostavano nella già gremita piazza Venezia dove, dopo aver reso omaggio al sacello del Milite Ignoto, assistettero al discorso del Duce. In questa occasione venne consegnato al Direttivo del Nastro Azzurro il nuovo labaro nazionale.

La cerimonia ebbe grande risalto nella cronaca dei quotidiani nazionali che dedicarono la prima pagina, quanto nei periodici (si tralascia in questa sede ogni commento sulla stampa durate il ventennio); anche La Tribuna Illustrata, l’Illustrazione del Popolo e La Piccola Italiana, dedicarono la prima pagina corredata da rappresentazioni della cerimonia (Figg. 6,7,8,), l’Archivio Storico dell’Istituto Luce conserva decine di fotografie dell’evento.

Per il Nastro Azzurro fu un momento di grande esposizione mediatica, ma anche di definitivo assoggettamento al regime, durante il conferimento del nuovo labaro nazionale “all’aristocrazia della guerra”, il Capo del governo stabilì la nuova consegna: “… Fate che le glorie del passato siano superate dalle glorie dell’avvenire!”.

 

Fonti

Archivio Storico della Stampa, 28 e 29 ottobre 1933

Archivio Storico del Popolo d’Italia 27, 28,29 ottobre 1933

Archivio Storico Corriere della Sera, 13, 28, 29 ottobre 1933

Fig.8) Prima pagina dell’Illustrazione del Popolo, sfilamento dei decorati (collezione privata dell’autore)


 

venerdì 15 novembre 2024

Giorgio Madeddu L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. Tessera Adunata Nazionale

 APPROFONDIMENTI

Fig.2) Tessera Adunata Nazionale 28 ottobre 1933. (collezione privata dell’autore)

Fig.3) Tessera Adunata Nazionale 28 ottobre 1933, nominativo e percorso autorizzato

Fig.4) Tessera Adunata Nazionale 28 ottobre 1933, itinerari dei treni speciali


mercoledì 13 novembre 2024

L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. I Parte

 APPROFONDIMENTI


La via dei Trionfi e l’Arco di Costantino (cartolina d’epoca, collezione privata autore


Giorgio Madeddu

 

Il 28 ottobre 1933, in occasione dell’undicesimo anniversario della “Marcia su Roma”, ai decorati al Valore Militare fu concesso il privilegio di inaugurare, nella capitale del Regno, la Via dei Trionfi. La strada, oggi in parte deviata dal suo percorso originario, si sviluppava lungo le attuali via di San Gregorio e via dei Verbiti, passando intorno all’Arco di Costantino andando a confluire nell’attuale via dei Fori Imperiali (già via dell’Impero, inaugurata nel 1932). (Fig. 1)

L’istituto del Nastro Azzurro organizzò la partecipazione all’evento in maniera magistrale, decine di migliaia di decorati confluirono nella Capitale provenienti da ogni parte d’Italia per partecipare a quella che venne anche denominata “Prima Adunata Nazionale”.

Per l’occasione, ad ogni decorato partecipante all’evento fu assegnata una “Tessera – Adunata” nominativa e numerata che costituiva il titolo di viaggio gratuito per recarsi a Roma sui treni ordinari o speciali. Treni speciali partirono da Trieste (N.1), da Bolzano (N.2), da Milano (N. 3), da Torino (N. 4), da Reggio Calabria (N.5) ed infine da Lecce il Numero 6. (Fig. 2, 3, 4).

A tutti i partecipanti, oltre la Tessera, venne distribuita la medaglia commemorativa dell’evento (Fig. 5) e un distintivo rappresentante l’Emblema Araldico dell’Istituto.

Il Popolo d’Italia del 27 ottobre riportava le immagini degli oggetti distribuiti ai decorati. (Fig. 6)

Nella prima mattinata del 28 ottobre, presso la Stazione Termini, iniziarono ad affluire le bandiere delle Forze Armate e i gonfaloni dei Comuni decorati al Valore Militare, migliaia di decorati si ammassarono in perfetto ordine nel piazzale antistante la stazione. Mentre il corteo iniziava a comporsi per lo sfilamento, la banda dei Carabinieri a cavallo, con l’esecuzione della Marcia Reale annunciava l’uscita dalla stazione delle 25 bandiere decorate al Valore che si avviavano per prendere posto alla testa del corteo. I reparti schiarati presentarono le armi e, contemporaneamente, le rappresentanze dei decorati e le folle presenti si posizionavano sull’attenti.

Le bandiere di esercito, marina, aereonautica, truppe coloniali e Comuni decorati al Valore Militare, nel rispettivo ordine di sfilamento, erano precedute da uno squadrone di Carabinieri a cavallo e dalla banda musicale dei Carabinieri, dietro le bandiere seguiva un reggimento di formazione. Il corteo proseguiva con il labaro del “Partito”, scortato del segretario on. Starace e dal vicesegretario on. Marpicati, nonché dalla 112a Legione della Milizia, dietro di questi, il labaro con il Direttorio del Gruppo Medaglie d’Oro e il labaro con il Direttorio del Nastro Azzurro.

Perfettamente inquadrati seguivano i Gruppi degli ufficiali, dei cappellani e dei sottoufficiali decorati. Un plotone di Carabinieri a cavallo chiudeva il corteo.

Il corteo iniziava il percorso dirigendo, tra file festanti di cittadini, verso piazza dell’Esedra passando per via Principessa di Piemonte dove era schierata una centuria di Balilla moschettieri che, al passaggio del corteo, presentava le armi. In via Nazionale, balconi con drappi tricolori e con i colori della Capitale, facevano da cornice a due ali di folla esultante che si prolungavano sino a piazza Venezia.

Al Vittoriano erano schierati, da un lato le Giovani Italiane mentre sul lato opposto trovavano spazio i Marinaretti, i Balilla, gli Avanguardisti e i Giovani Fascisti, di fronte a questi erano schierate oltre 40.000 Camice Nere appartenenti ai gruppi rionali romani. L’ Associazione dei Mutilati, quelle dei Volontari, dei Combattenti, le diverse Associazioni d’Arma nonché le organizzazioni sindacali e dopolavoristische, erano invece schierate sulla via dell’Impero sino alla Basilica di Massenzio, dove era stato eretto il palco reale, addobbato di velluto cremisi e di un baldacchino con la corona reale ricamata in oro. Seguivano le tribune per le autorità, il corpo diplomatico e gli invitati. Sul lato opposto, davanti al palco reale, prendevano posto le madri e vedove dei Caduti in guerra e le donne decorate al Valore Militare.

Prima dell’Arco di Costantino, prendevano posto i presidenti di Senato e Camera, Ministri e Sottosegretari, Senatori e Deputati nonché le alte cariche dello Stato decorate al Valore Militare. Duecento tra labari e fiamme delle sezioni del Nastro Azzurro erano schierati assieme ai componenti del Consiglio nazionale dell’Istituto, ai mutilati, arditi e volontari decorati al Valore Militare.

Attraversato l’Arco di Costantino, il corteo si schierava e si disponeva ad ascoltare il messaggio del Capo del Governo, letto dal Segretario del Partito.

Alle 11,15 gli squilli degli “attenti” avvisavano dell’arrivo del Re che veniva accolto dalle autorità presenti.

Montato a cavallo il Re passava in rassegna i reparti e i gruppi schierati per “saluto al Re!”, la rassegna terminava intorno alle 12.

Conclusa l’inaugurazione della nuova via dei Trionfi, le autorità e il Direttorio del Nastro Azzurro si spostavano nella già gremita piazza Venezia dove, dopo aver reso omaggio al sacello del Milite Ignoto, assistettero al discorso del Duce. In questa occasione venne consegnato al Direttivo del Nastro Azzurro il nuovo labaro nazionale.

La cerimonia ebbe grande risalto nella cronaca dei quotidiani nazionali che dedicarono la prima pagina, quanto nei periodici (si tralascia in questa sede ogni commento sulla stampa durate il ventennio); anche La Tribuna Illustrata, l’Illustrazione del Popolo e La Piccola Italiana, dedicarono la prima pagina corredata da rappresentazioni della cerimonia (Figg. 6,7,8,), l’Archivio Storico dell’Istituto Luce conserva decine di fotografie dell’evento.

Per il Nastro Azzurro fu un momento di grande esposizione mediatica, ma anche di definitivo assoggettamento al regime, durante il conferimento del nuovo labaro nazionale “all’aristocrazia della guerra”, il Capo del governo stabilì la nuova consegna: “… Fate che le glorie del passato siano superate dalle glorie dell’avvenire!”.

 

Fonti

Archivio Storico della Stampa, 28 e 29 ottobre 1933

Archivio Storico del Popolo d’Italia 27, 28,29 ottobre 1933

Archivio Storico Corriere della Sera, 13, 28, 29 ottobre 1933


domenica 10 novembre 2024

Propaganda di Guerra. La battaglia dell'Atlantico. La battaglia dei Convogli

ARCHIVIO


 la capacità cantieristica dei paesi alleati era tale che compensava il numero delle navi affondate. Il progetto "liberty"
consistente nella costruzione di navi da 10.000 tonnellate su moduli prefabbricati prevedeva il varo di una nuova nave ogni tre giorni
Questo fu il segreto per cui sia la battaglia dell'Atlantico che la Battaglia dei Convogli fu vinta dagli Alleati

 

sabato 9 novembre 2024

LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA II Parte

 APPROFONDIMENTI


Sergio Benedetto Sabetta

( Seconda parte)


LA  MEMORIA E LA STORIA

 

            Attualmente vi è la tendenza a ridurre la storia ad una serie di fatti autonomi, non calati nel contesto, vi è quindi una distorsione della loro lettura.

            Si arriva addirittura a cancellare la storia quale elemento superfluo, vivendo in un eterno presente, fondato sul concetto economico neoliberista per cui tutto si ridurrebbe al solo aspetto economico di una continua crescita quantitativa del consumo, indipendentemente dalla qualità.

            Si introduce l’idea della a-storia quale “fine della storia”, seconda una visione messianica non realizzatasi, ma la rinuncia alla propria storia crea una debolezza identitaria che ne favorisce la manipolazione, una rivendicazione di diritti senza chiari doveri che in tal modo vengono a disarticolare il tessuto sociale.

            L’Occidente soffre di tre crisi: psicologico – culturale, demografica e di una visione strategica condivisa, questo favorisce la volontà di affermazione di altre potenze globali che si ritagliano proprie aree geografiche di influenza.

            In questo contestare la supremazia occidentale, rappresentata dagli USA, rientrano gli eccessi della cultura woke e della cancel culture, nate in California, che creano un senso di colpa nell’Occidente senza cogliere la dimensione progressiva della storia.

            La memoria è dinamica e quindi strettamente connessa alla libertà, la sua cancellazione in un continuo presente ( a- storia) conduce alla perdita inconsapevole della libertà, indolore ma per questo più profonda e subdola.

            Ne sono testimonianza le continue polemiche sulle varie figure storiche e fatti che vengono astratti  dal contesto storico, per divenire puro strumento di lotta ideologica avulso da qualsiasi riflessione storica, come il disamore verso la nostra cultura che rende indifferenti alla perdita di tradizioni e artigianato in una male intesa globalizzazione, a questo si oppone quale richiamo la presente pubblicazione.

            L’Italia ha una storia particolare, è fondata sulla storia, incrocio di tre continenti è una penisola posta al centro del Mediterraneo, ricca per il suo valore strategico, economico e culturale, sempre contesa dai potentati esterni e indebolita internamente da quello che “ Foscolo nella – Lettera apologetica -, vedeva nell’interessata collusione degli intellettuali italiani”, e non solo, “ con lo straniero il pericolo sommo” ( 50 – 51, Il futuro della memoria, AA.VV., Limes , 4/2024).

 

             

Altipiani

 

            Il fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.

            La Strafeexpedition travolse l’intero altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.

            La battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.

            Si giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo  un lungo errare per camminamenti sconosciuti , ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre, come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.

            I rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe stato troppo duro riconquistare la cima.

           

Colbricon

 

            Il Colbricon è tagliato netto in due da una parte un pendio agevole di sassi, di grandi rocce e  di pascoli, percorso da frequenti piccoli  rigagnoli d’acqua: il versante nemico. Da questa parte una parete verticale sotto le cui altissime pale vi sono sentieri vertiginosi, terrazzini aerei, ballatoi tremanti, scale verticali per vincere il precipizio: le posizioni italiane presidiate da fanti e bersaglieri, non dunque alpini, la brigata Calabria.

            Questa brigata costituita da pastori jonici, contadini umbri, maremmani e ciociari, in gran parte con veneti della costa o delle paludi, questi tennero le posizioni a 2.700 metri contendendole agli austriaci in sortite sulle sassaie perennemente ingombre di neve, perdendole e riprendendole.

            Nella parte inferiore del monte vi erano le baracchette scavate nella roccia dove alloggiavano ufficiali e telefonisti, più in alto le nicchie e i covi a cui si accedeva per scalette piantate nella roccia. Nelle nicchie e nei buchi vicino alle feritoie vi erano le coperte da campo, le cartoline in franchigia, le gavette, i calzari contro il gelo, le “fipe” già discaspulate.

                       

 Carso

 

            Non è Carso, il Podgora è il Podgora. Quando nella primavera del 1915 i primi reparti valicarono il confine, i battaglioni si nutrivano di ciliegie e frutta raccolta sul posto in quanto il rancio non arrivava, ma avanzavano fiduciosi nelle nuove terre finchè vennero bruscamente fermati da queste irte difese.

            Allora si interrarono e restarono fermi per mesi e mesi, ficcati nel suolo che in autunno si trasformò in un fondo pantano, con ricoveri di fango che crollavano addosso per la pioggia, senza ranci caldi, andando all’assalto dei reticolati intatti, senza adeguati tiri d’artiglieria a copertura senza elmetti e con le sole forbici tagliafilo, gli ufficiali in diagonale e fregi argentati sguainavano negli attacchi le sciabole brunite.

            Tuttavia in un impeto giovanile venivano lanciate all’assalto e rilanciate in una carneficina le brigate Pistoia, Pavia, Re, Casale, Carabinieri, sotto il fuoco delle mitragliatrici e della fucileria rotolavano giù per il pendio i morti e i feriti con gli sbandati, ma bastò un giorno che un trombettiere della brigata Re caporale Ippolito suonasse nella tromba a vanvera tutte le arie della caserma, “cappella marca visita” e “adunata seconda compagnia”, perché le schiere si riordinassero e tornassero nuovamente all’assalto dei reticolati intatti, la morte non fu più un’attendere ma divenne una costante del fante.

            Nel Carso accanto al Podgora vi è il San Michele dove vi era una palude morta il lago di Doberdò, qui si arrestarono per lunghi mesi  gli sforzi degli assalitori, per superarlo al volo dopo la conquista di Gorizia, la valle non fu mai commemorata come luogo di battaglia.

            Doberdò sia gli italiani che gli austriaci lo chiamarono concordemente l’inferno, come la cima del San Michele che fu detta dagli ungheresi “il monte dei cadaveri” tanti erano ammucchiati che ne aveva mutato il profilo.

            In queste buche mezze colmate di fango irruppero i fanti della Perugia, fasciati i piedi dai sacchetti per la sorpresa notturna, il terreno era duro e di sasso come i parapetti delle trincee dove non si era avuto il tempo o i mezzi per scavare.

Quando i proiettili dell’artiglieria vi battevano dentro le schegge si moltiplicavano, esse cadevano tutto intorno in una grandine di pietre, quelle trincee e quei camminamenti durante le piogge si convertivano in torrenti di fango, in fosse di melma alta e densa che cancellava mostrine, uniformi e connotati alle persone, passando con uguale intonaco viscido sulle armi, sulle ferite e sui cibi.

Dai posti avanzati durate le tregue del fuoco, i fanti potevano vedere, immersi nelle trincee, nella pianura Gorizia avvolta nella caligine come una meta lontana  e preclusa.

 

Ortigara

 

 

Da un lato la montagna cade a piombo sulla Valsugana, scendendo rapida sul Passo dell’Agnella da dove venne l’attacco, dall’altro lato l’altopiano si estende senza forma né confini per leggere valli e modeste ondulazioni, arido simile a un gigantesco Carso, dove le doline si chiamano buse, le quote s’innalzano a 1.500 e a 2.000 metri: Campigoletti, Cima Lozze, Caldiera, Campanaro e il famigerato Corno di Campo Bianco, nido degli osservatori austriaci.

Vi erano dalla parte italiana 26 battaglioni alpini, due brigate di fanti, un reggimento di bersaglieri, con batterie da montagna in prima linea a tirare a raso zero. Dalla parte austriaca i battaglioni scelti del celebrato “III Corpo d’Armata di ferro”.

La battaglia durata venti giorni fece tuonare più di quattromila bocche da fuoco tra cannoni, obici, mortai, bombarde e nuvole di gas e fiamme sopra pochi chilometri quadrati, mentre gli austriaci erano insediati in caverne organizzate delle quali i nostri bollettini ne tacquero l’esistenza.

La carneficina causò tra le nostre fila 30.000 perdite fra morti e feriti, in poche ore dei reparti coinvolti ne restavano avanzi sparuti, “i battaglioni ritirati dall’inferno dell’Ortigara sono scorie”, come riferisce la relazione ufficiale austriaca, si comprende così il grido disperato di quei fanti della brigata Regina dopo venticinque mesi di guerra: “Ridateci il nostro Carso!”.

Nella primavera del 1917 i soldati non credevano più alla propaganda sulla vittoria ma non si pensava alla sconfitta, erano come dei sonnambuli, quasi bambini dallo sforzo di non pensare troppo, due anni di guerra aveva scavato un abisso tra il paese e il fronte, allora nel paese non vi era quel desiderio di finire presto questa guerra, con il malcontento per il vitto sempre più raro, per il disagio crescente, lo scontro tra soldati in linea e imboscati, e campagne assenti per mancanza di braccia.

In linea, al contrario vi era un rassegnato adattamento a dover lasciare  prima o poi la vita in questa mattanza che non finiva più, tuttavia annebbiati in quell’apatia che diviene spesso una benefica anestesia, gli ordini delle varie operazioni si eseguivano senza ribellione e fede anche nel prevederne il fallimento.  Talvolta l’inerte ubbidienza cedeva a improvvise ribellioni immediatamente represse con ferocia.

Nonostante fossero sfiduciate sull’Ortigara le truppe rimasero fedeli e uscite dalle trincee riuscirono a conquistare le tre cime, tuttavia sul fianco sinistro l’offensiva era fallita ed era stata del tutto abbandonata.

Ricevuto l’ordine di fermarsi sulle posizioni conquistate si trincerarono e in uno spazio incredibilmente ristretto decine di migliaia di uomini  furono investiti dal fuoco delle artiglierie, da nuvole di gas e torrenti di liquidi infiammabili, le tre cime furono perse e riconquistate tra attacchi e contrattacchi respinti mentre le retrovie subivano furiosi bombardamenti.

Si racimolarono gli ultimi brandelli di battaglioni, due battaglioni rimasti per miracolo intatti furono anch’essi buttati nel fuoco e si andò all’attacco riconquistando il terreno perso e facendo dei prigionieri, per cinque giorni si rimase inchiodati sulle posizioni riconquistate disfacendo gli ultimi reparti.

Venne alfine l’ultimo attacco nemico che travolse la cima riconquistata ma si riuscì a contenerlo arrestandolo poco sotto, solo quando arrivò l’ordine di rientro, a scaglioni si sganciarono, una squadra del battaglione Cuneo non venne informata dell’ordine del ripiegamento, rimase tutta la notte e tutto il giorno seguente al suo posto rientrando illesa ventiquattro ore dopo, con il nemico che dubbioso della sua vittoria non aveva osato scendere dalla cima.

Guardando fuori dalle trincee della Caldiera si vedeva l’Ortigara cambiare colore, fumare in giallo e nero per le esplosioni ed i gas, ma nonostante tutto si resisteva nonostante lo scoramento e la mancanza di un senso nella lotta quotidiana se non sopravvivere, in uno scatto di orgoglio la frase la disse per tutti l’alpino Santino Calvi del battaglione Bassano : “ Vedrete oggi, come sanno morire gli alpini italiani !”, e morì. “ Me fa pecà  ricordò il vecchio alpino del Val Brenta.

Monte  Grappa

 

La cima del Grappa è ancora incisa dalle trincee e scavata da chilometri di caverne, oggi spianata da un Ossario, cimitero monumentale per i caduti che tra il 1917 e il 1918 trasformarono la montagna nel cardine della difesa tra la pianura del Piave e le catene montuose del Trentino.

Il 24 ottobre 1918 da questo monte iniziò l’ultima battaglia, quella della vittoria, fu una lotta dura e feroce esasperata dalla volontà di resistenza dei nemici, in Europa vi era una stanchezza per la guerra infinita, i cittadini tumultuavano, vecchie e nuove nazionalità esplodevano in ribellione e i diplomatici pensavano già al dopo guerra.

Sulle balze del monte le migliori truppe d’Italia e quelle più solide dell’Austria si scontravano furiosamente, brigate di fanti fatte con le reclute del 1899, ma inquadrati da veterani delle battaglie precedenti,reparti d’assalto di fiamme nere e fiamme rosse, vecchi battaglioni d’alpini che si erano  già scontrati sulle Tofane, sull’Ortigara, sul Vodice e sul Tomatico, iniziarono l’ultima battaglia per stornare il nemico dal piano e dal fiume Piave.

Nella nebbia mattutina escono gli arditi del XXIII reparto d’assalto e fanti della Pesaro contro il Pertica, gli arditi del IX reparto e fanti della Bari contro l’Asolone, gli alpini e i fanti della Lombardia e dell’Aosta contro i Salaroli e il Valderoa. Il primo giorno della battaglia non porta altri vantaggi che la conquista del Valderoa.

Il 25 la brigata Pesaro conquista il Pertica e riesce a conservarlo, l’Asolone è preso dagli arditi che balzano oltre l’obiettivo dell’assalto fino a raggiungere il Col della Berretta, più tardi riconquistato con un violento attacco dal nemico che annienta i difensori, al Col del Cuc, ai Salaroli e oltre il Valderoa gli italiani vengono fermati dai reticolati intatti, dalle difese scavate nella roccia e dalla nebbia.

Animose pattuglie si fanno sotto i reticolati, li riescono a valicare, ma i rincalzi non possono seguirli, sono quindi distrutte, altri reparti ne imitano l’eroismo subendo la stessa sorte, i veterani sentono per la prima volta dietro di sé l’intero paese.

Nel disfacimento del vecchio Impero austriaco, vengono  a rinforzo gli ultimi soldati  delle divisioni di Boroevic, questo è l’ultimo duello, devono resistere e riescono a farlo bene nella ricerca di un armistizio onorifico al fine di salvare l’Austria dall’invasione e con essa la corona all’Imperatore.

Avanza la celebre divisione Edelweiss, e con essa i territoriali croati del 27° reggimento che si offrono volontariamente per la battaglia, ignari che tra una settimana si proclameranno nostri alleati, i Galiziani del 120° , i Cechi e i Bosniaci, mussulmani realissimi a Sua Maestà Imperiale.

Alla testa avanzano le Sturm-truppen , truppe d’assalto con alla testa il  terribile 55° reparto, seguono le divisioni di riserva tenute in serbo negli alloggiamenti tra il Piave e Belluno.

Gli Austriaci sanno che il Piave è in piena e che la corrente travolge i ponti, gli Italiani sono in crisi nel forzarlo, si cerca di capovolgere l’esito della battaglia sulle pendici del massiccio del Grappa.

La notte del 26 ottobre il battaglione alpini Aosta a selletta Valderoa viene attaccato e resiste contrattaccando per 12 ore, quando finalmente arrivano i rinforzi poche decine di uomini rimangono validi: 10 ufficiali morti e 15 feriti, 130 soldati morti e 640 feriti danno al battaglione, già distrutto un anno prima al Vodice  due anni prima al Pasubio, il titolo nobiliare di “massacratissimo”.

Gli alpini del Pelmo e reparti della Bologna occupano Col del Cuc, sull’Asolone fanti della Forlì e arditi XVIII reparto per venti volte assaltano le trincee nemiche finché alla sera la montagna rimane agli austriaci.

Il 27 ottobre cade il Valderoa invano difeso fino al totale annientamento da una compagnia del battaglione Cadore senza più ufficiali ed ai superstiti del battaglione Aosta. Anche il Pertica è perso, riconquistato e riperduto, alla sera il Pertica è nuovamente e definitivamente italiano, ma gli austriaci serrano minacciosamente ancora sotto.

Il 28 è un giorno di tregua relativa, il 29 la battaglia divampa ancora con rinnovata violenza, arditi e fanti della Calabria si dissanguano sul Col della Berretta,altri reparti di arditi riprendono l’Asolone ma vengono di nuovo scacciati, ben 17 assalti vengono respinti finché con tenacia i reparti della Siena irrompono sulla vetta e la difendono contro rinnovati attacchi nemici che tuttavia alla sera riescono a scacciarne gli italiani, l’ultimo sforzo vittorioso austriaco.

Tuttavia il nemico è caduto nel tranello riversando sul Grappa la maggior parte delle riserve e logorando le sue truppe migliori, sul Piave nel frattempo la battaglia è vinta con la presa della piana di Sernaglia, viene pertanto dato l’ordine dal Comando Supremo all’Armata del Grappa di sospendere l’offensiva costata la perdita di trentamila uomini.

 

( Paolo Monelli, Sette battaglie, Treves 1928)

 


venerdì 8 novembre 2024

LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA I Parte

 APPROFONDIMENTI


Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

                                                               (  Prima parte  )

 

Alta Montagna

           Quando si sale per un sentiero di montagna o un nevaio particolarmente difficile tra gli alpini della Grande Guerra vi era il detto “ Passa parola che la monta”, queste parole sono particolarmente confacenti alla guerra in alta montagna tra i 2200 e i 3700 metri di Monte Nero, Alpi di Fiamme, Tofàne, Monticelli, Poi Crozzon di Lares , Loccia Alta, Dosson di Genova, il Mantello ed il San Matteo, la più alta battaglia combattuta nella storia.

                Il 15 giugno del 1917 sul ghiacciaio di Lares gli sciatori del Capitano Calvi si esposero al fuoco delle mitragliatrici austriache per distrarre i difensori,  mentre gli alpini del battaglione Val Baltea scalarono il picco su una parete talmente liscia che bastava un solo tiratore austriaco per fermarli, finché arrivati in cima conquistarono il Corno di Cavento sorprendendone i difensori.

                Sul Passo della Sentinella e sulle posizioni di Cima Undici vi erano le baracchette su cengine incastrate fra le rocce tenute su con le funi, le finestrelle si spalancano sul vuoto mentre le porte possono diventare trabocchetti sull’abisso. 

                Il Piccolo Lagazuoi fu demolito tre volte il 23 maggio 1917 gli Austriaci fecero scoppiare la seconda mina che determinò il crollo di un suo superbo pinnacolo su cui vivevano aggrappati i plotoni alpini del Val Chisone.

                 Un giorno arrivò un ordine, tutti gli ufficiali scapoli del battaglione a turno dovevano andare in fondo ad una determinata grotta ogni giorno per un’ora, questo al fine di sentire se e come lavorava la perforatrice austriaca che stava preparando la camera di scoppio.

                La sorveglianza era pericolosa, si preferiva piuttosto andare all’attacco per crode e baranci in quanto gli austriaci anche se avevano finito il lavoro mantenevano in funzione la perforatrice per ingannare, così si aspettava con le orecchie sul geofono temendo un’esplosione da un momento all’altro.

                Fortunatamente dal Col di Lana gli italiani potevano osservare il rovescio delle posizioni nemiche e il giorno in cui non videro più lo sgombro dei materiali di scavo diedero l’allarme, essendo il lavoro di scavo finito. Si restò in attesa dello scoppio finale.

                La notte della mina appena cessò il rombo dell’esplosione e gli echi di valle in valle con sorpresa degli austriaci si udì suonare un’allegra fanfara alpina su per la cengia Martini, una beffa di guerra, come avveniva molte volte in questa lotta in alta montagna. Un caso analogo avvenne con il Capitano Rossi della 96°, Battaglione Antelao che fece squillare la fanfara per incoraggiare i suoi alpini nello scontro sul masaré di Fontananegra.

                Nel Piccolo Lagazuoi il presidio del Dente fu ritirato prima dello scoppio, rimasero sotto al crollo le poche sentinelle che guardavano la punta estrema della cengia, una volta avvenuto lo scoppio la compagnia che si era ritirata passò al contrattacco e alla baionetta ricacciò gli austriaci facendo suonare le trombe e i bombardini e cantando le canzoni degli alpini piemontesi: “Fieui  partouma, sentì le fanfare…” .

                La lotta era di pochi contro pochi, viso a viso, vedendo in faccia il nemico, per posizioni che a 3.000 metri bastavano un caporale e tre uomini oppure trenta tonnellate d’esplosivo e un anno di scavi, su pinnacoli tanto aguzzi che bisognava legarsi per dormire.

                Quando sulla Tofana di Rozes si riuscì a issare un cannone, al primo colpo, mentre alpini e serventi ne osservavano gli effetti sul fondo valle, il cannone lentamente incominciò a retrocedere finché fini per rotolare mille metri  più sotto, dove rimase fino a fine guerra.

                Le battaglie cominciavano solo dopo  ore di arrampicata sulla roccia, a furia di corde, picozze e chiodi nella muraglia, digiuni, infreddoliti, recando sulle spalle viveri, bombe e mitragliatrici, quando si era sull’orlo della cima si veniva coinvolti in una mischia mortale, nel caso delle mine queste erano precedute da studi minuziosi e scandagli lungo le pareti legati a corde pendenti nel vuoto.

                Questa tipologia di lotta spiega due cose, la personificazione che i soldati avevano degli elementi naturali entro cui si viveva prima ancora che contro il nemico, esseri soprannaturali e maligni che si dovevano combattere, inoltre in secondo luogo l’umile grado di questi “eroi” appartenenti tutti alle gerarchie inferiori.

                Talvolta agli scoppi si sovrapponevano i boati delle valanghe, masse enormi di neve slittavano dalle creste precedute da un freddo vento e nel precipitare di una nuvola di neve batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni interi erano seppelliti senza lasciare traccia, coloro che ne scampavano, tratti fuori dalla massa bianca, non potevano più sopportare coltri pesanti avendo l’incubo della soffocazione.

               

Monte Nero

 

Spunta l’alba del sedici giugno,

comincia il fuoco d’artiglieria,

il terzo alpini è per la via

Monte Nero a conquistar.

                Così comincia la canzone di gesta del Monte Nero, parole semplici, ritmo lamentoso, come nacque la sera dopo la battaglia, il testo originale fu scritto su un pezzetto di carta dall’alpino Domenico Borella che aveva partecipato alla battaglia.

                Come coloro che partecipando ad una battaglia non si accorgono del mito che su di essa si forma Borella intitolò così la sua creazione : Cansone omoristica del 3° Reggimento Alpini alla conquista del Monte Nero.

Quando fummo a trenta metri

dal nemico ben trincerato,

un assalto disperato

il nemico fu prigionier.

                L’attacco al Monte Nero avvenne ad opera della 84° compagnia dell’Exilles, capitano Arbarello, che si arrampicò per l’esile costone Sud-Ovest del monte, in fila indiana rapidi e silenziosi su rocce a picco.

                In testa vi era il sottotenente Picco con cinque alpini, veniva dietro il capitano Arbarello con un plotone di cinquanta uomini a cui seguivano quale rincalzo altri due plotoni, fucile a tracollo, tascapane con viveri e cartucce, niente bombe a mano in quanto si era all’inizio della campagna e le bombe a mano le avevano solo i nemici.

                Poco sotto la vetta il sottotenente Picco irrompe con i suoi cinque alpini, conquista la posizione, ma si prende una pallottola nel ventre e muore, accanto a lui muoiono altri due soldati,  il nemico è comunque rigettato dal monte e in pochi minuti la cima ritorna silenziosa.

                Contemporaneamente vi è l’attacco della 35° compagnia del Susa, capitano Varese, che conquista le difese laterali del monte con un assalto frontale, sotto un fuoco micidiale, le perdite sono maggiori, muore il sottotenente Vallero ma la conquista è rapida e sicura.

                Altra azione è quella della 31° compagnia dell’Exilles, capitano Rosso, che sale sulla neve all’attacco della colletta del Monte Nero, così presa da tre parti con un’azione fulminea, “un colpo da maestro” come fu riconosciuto   dagli stessi nemici.

                La sera il maggiore Treboldi, comandante del settore annunciava in prosa burocratica la vittoria, seicento prigionieri , centotrentotto nemici morti accertati.

                La battaglia si estese al vicino Monte Rosso, più piccolo del Monte Nero dove tuttavia vi furono attacchi e contrattacchi, bisognava difendere la conquista con pochi mezzi, difficile risultava collocare i reticolati sulla roccia liscia, poche le munizioni, scarsi i viveri, vi era una sola coperta per soldato con una notte estremamente rigida.

                Il capitano Arbarello aveva dato ordine sulla cima ad ogni soldato di ammucchiare davanti a sé più sassi possibili, nella notte salirono i bosniaci Arbarello attese che fossero proprio sotto poi diede un ordine – Roc a la man, (sassi alla mano) – e dopo una pausa – Alè, fieui, (tirate figlioli) il nemico non riuscì a porre piede sulla cima.

 

E per venirti a conquistare

abbiamo perduto tanti compagni,

                                                                                    tutti giovani sui vent’anni,                                              

la sua vita non torna più.

                La montagna altissima sulla bassa valle, elettrica di roccia nuda, appena cambiava il tempo era rigata da correnti crepitanti, bastava appoggiare il fucile alla roccia per vederlo percossa da continue piccole scariche, nelle notti di burrasca vi era un lampeggiamento senza tregua, si vedeva come di giorno.

                Le tormente di neve duravano ininterrotte per quattro o cinque giorni, obbligavano gli uomini nel baracchino, seppellivano ogni ricovero, quando tornava il sereno si cominciava a scavare nella neve fresca per cercarsi, c’era sempre qualcuno che mancava all’appello.

                Non su questa montagna, ma sotto una valanga morì lo stesso capitano Arbarello soffocato dalla massa nevosa che aveva schiacciato la sua baracca, prima di morire il capitano scrisse sopra un pezzo di carta “Muoio asfissiato per l’Italia. Ho fatto di tutto per salvare il mio tenente …” e qui cadde la penna.

                Era chiamato affettuosamente dai suoi alpini “papà”, burbero affettuoso quando cominciavano a tremare dalla commozione i suoi baffoni neri, perché i soldati non se ne accorgessero si metteva ad urlare con il suo vocione. Ad un ferito che si lamentava per il freddo commosso gridava “non ti vergogni?” poi lo copriva con la sua mantellina.

                Ecco perché un altro soldato ha aggiunto al manoscritto di Domenico Borella l’ultima strofa

Il colonnello che piangeva

a veder tanto macello:

fatti coraggio, alpino bello,

che l’onore sarà per te.

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                          Altipiani

 

                Il fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.

                La Strafeexpedition travolse l’intero altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.

                La battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.

                Si giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo  un lungo errare per camminamenti sconosciuti , ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre, come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.

                I rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe stato troppo duro riconquistare la cima.