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VALORE MILITARE Ce.S.Va.M.
Il blog è espressione del Centro Studi sul Valore Militare - Ce.S.Va.M.- istituito il 25 settembre 2014 dal Consiglio Nazionale dell'Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valore Militare.Lo scopo del CEsVAM è quello di promuovere studi sul Valore Militare.E' anche la continuazione on line della Rivista "Quaderni" del Nastro Azzurro. Il Blog è curato dal Direttore del CEsVAN, Gen. Dott. Massimo Coltrinari (direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
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mercoledì 20 novembre 2024
Propaganda di Guerra. La Campagna di Russia
lunedì 18 novembre 2024
Giorgio Madeddu L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. "La Tribuna Illustrata"
APPROFONDIMENTI
Fig.7)
Prima pagina de La Tribuna Illustrata, disegno dello sfilamento sotto l’Arco
di Costantino (collezione privata dell’autore) |
L’inaugurazione della via dei
Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre
1933. Giorgio Madeddu
Il 28 ottobre 1933, in occasione
dell’undicesimo anniversario della “Marcia su Roma”, ai decorati al Valore
Militare fu concesso il privilegio di inaugurare, nella capitale del Regno,
la Via dei Trionfi. La strada, oggi in parte deviata dal suo percorso
originario, si sviluppava lungo le attuali via di San Gregorio e via dei
Verbiti, passando intorno all’Arco di Costantino andando a confluire
nell’attuale via dei Fori Imperiali (già via dell’Impero, inaugurata nel
1932). (Fig. 1) L’istituto del Nastro Azzurro
organizzò la partecipazione all’evento in maniera magistrale, decine di
migliaia di decorati confluirono nella Capitale provenienti da ogni parte
d’Italia per partecipare a quella che venne anche denominata “Prima Adunata
Nazionale”. Per l’occasione, ad ogni decorato
partecipante all’evento fu assegnata una “Tessera – Adunata” nominativa e
numerata che costituiva il titolo di viaggio gratuito per recarsi a Roma sui
treni ordinari o speciali. Treni speciali partirono da Trieste (N.1), da
Bolzano (N.2), da Milano (N. 3), da Torino (N. 4), da Reggio Calabria (N.5)
ed infine da Lecce il Numero 6. (Fig. 2, 3, 4). A tutti i partecipanti, oltre la
Tessera, venne distribuita la medaglia commemorativa dell’evento (Fig. 5) e
un distintivo rappresentante l’Emblema Araldico dell’Istituto. Il Popolo d’Italia del 27 ottobre
riportava le immagini degli oggetti distribuiti ai decorati. (Fig. 6) Nella prima mattinata del 28
ottobre, presso la Stazione Termini, iniziarono ad affluire le bandiere delle
Forze Armate e i gonfaloni dei Comuni decorati al Valore Militare, migliaia
di decorati si ammassarono in perfetto ordine nel piazzale antistante la
stazione. Mentre il corteo iniziava a comporsi per lo sfilamento, la banda
dei Carabinieri a cavallo, con l’esecuzione della Marcia Reale annunciava
l’uscita dalla stazione delle 25 bandiere decorate al Valore che si avviavano
per prendere posto alla testa del corteo. I reparti schiarati presentarono le
armi e, contemporaneamente, le rappresentanze dei decorati e le folle
presenti si posizionavano sull’attenti. Le bandiere di esercito, marina,
aereonautica, truppe coloniali e Comuni decorati al Valore Militare, nel
rispettivo ordine di sfilamento, erano precedute da uno squadrone di
Carabinieri a cavallo e dalla banda musicale dei Carabinieri, dietro le
bandiere seguiva un reggimento di formazione. Il corteo proseguiva con il
labaro del “Partito”, scortato del segretario on. Starace e dal
vicesegretario on. Marpicati, nonché dalla 112a Legione della Milizia, dietro
di questi, il labaro con il Direttorio del Gruppo Medaglie d’Oro e il labaro
con il Direttorio del Nastro Azzurro. Perfettamente inquadrati seguivano
i Gruppi degli ufficiali, dei cappellani e dei sottoufficiali decorati. Un
plotone di Carabinieri a cavallo chiudeva il corteo. Il corteo iniziava il percorso
dirigendo, tra file festanti di cittadini, verso piazza dell’Esedra passando
per via Principessa di Piemonte dove era schierata una centuria di Balilla
moschettieri che, al passaggio del corteo, presentava le armi. In via
Nazionale, balconi con drappi tricolori e con i colori della Capitale,
facevano da cornice a due ali di folla esultante che si prolungavano sino a
piazza Venezia. Al Vittoriano erano schierati, da
un lato le Giovani Italiane mentre sul lato opposto trovavano spazio i
Marinaretti, i Balilla, gli Avanguardisti e i Giovani Fascisti, di fronte a
questi erano schierate oltre 40.000 Camice Nere appartenenti ai gruppi
rionali romani. L’ Associazione dei Mutilati, quelle dei Volontari, dei
Combattenti, le diverse Associazioni d’Arma nonché le organizzazioni
sindacali e dopolavoristische, erano invece schierate sulla via dell’Impero
sino alla Basilica di Massenzio, dove era stato eretto il palco reale,
addobbato di velluto cremisi e di un baldacchino con la corona reale ricamata
in oro. Seguivano le tribune per le autorità, il corpo diplomatico e gli
invitati. Sul lato opposto, davanti al palco reale, prendevano posto le madri
e vedove dei Caduti in guerra e le donne decorate al Valore Militare. Prima dell’Arco di Costantino,
prendevano posto i presidenti di Senato e Camera, Ministri e Sottosegretari,
Senatori e Deputati nonché le alte cariche dello Stato decorate al Valore
Militare. Duecento tra labari e fiamme delle sezioni del Nastro Azzurro erano
schierati assieme ai componenti del Consiglio nazionale dell’Istituto, ai
mutilati, arditi e volontari decorati al Valore Militare. Attraversato l’Arco di Costantino,
il corteo si schierava e si disponeva ad ascoltare il messaggio del Capo del
Governo, letto dal Segretario del Partito. Alle 11,15 gli squilli degli
“attenti” avvisavano dell’arrivo del Re che veniva accolto dalle autorità
presenti. Montato a cavallo il Re passava in
rassegna i reparti e i gruppi schierati per “saluto al Re!”, la rassegna
terminava intorno alle 12. Conclusa l’inaugurazione della nuova
via dei Trionfi, le autorità e il Direttorio del Nastro Azzurro si spostavano
nella già gremita piazza Venezia dove, dopo aver reso omaggio al sacello del
Milite Ignoto, assistettero al discorso del Duce. In questa occasione venne
consegnato al Direttivo del Nastro Azzurro il nuovo labaro nazionale. La cerimonia ebbe grande risalto
nella cronaca dei quotidiani nazionali che dedicarono la prima pagina, quanto
nei periodici (si tralascia in questa sede ogni commento sulla stampa durate
il ventennio); anche La Tribuna Illustrata, l’Illustrazione del Popolo e La
Piccola Italiana, dedicarono la prima pagina corredata da rappresentazioni
della cerimonia (Figg. 6,7,8,), l’Archivio Storico dell’Istituto Luce
conserva decine di fotografie dell’evento. Per il Nastro Azzurro fu un momento
di grande esposizione mediatica, ma anche di definitivo assoggettamento al
regime, durante il conferimento del nuovo labaro nazionale “all’aristocrazia
della guerra”, il Capo del governo stabilì la nuova consegna: “… Fate che le glorie
del passato siano superate dalle glorie dell’avvenire!”.
Fonti Archivio Storico della Stampa, 28 e
29 ottobre 1933 Archivio Storico del Popolo
d’Italia 27, 28,29 ottobre 1933 Archivio Storico Corriere della
Sera, 13, 28, 29 ottobre 1933 |
Fig.8)
Prima pagina dell’Illustrazione del Popolo, sfilamento dei decorati (collezione
privata dell’autore) |
domenica 17 novembre 2024
Giorgio Madeddu L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. " Prima Pagina de "La Piccola Italiana"
sabato 16 novembre 2024
venerdì 15 novembre 2024
Giorgio Madeddu L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. Tessera Adunata Nazionale
APPROFONDIMENTI
Fig.2)
Tessera Adunata Nazionale 28 ottobre 1933. (collezione privata dell’autore) |
Fig.3)
Tessera Adunata Nazionale 28 ottobre 1933, nominativo e percorso autorizzato |
Fig.4) Tessera
Adunata Nazionale 28 ottobre 1933, itinerari dei treni speciali |
giovedì 14 novembre 2024
mercoledì 13 novembre 2024
L’inaugurazione della via dei Trionfi – Adunata Nazionale dei decorati al Valore Militare. Roma 28 ottobre 1933. I Parte
APPROFONDIMENTI
Giorgio Madeddu
Il
28 ottobre 1933, in occasione dell’undicesimo anniversario della “Marcia su
Roma”, ai decorati al Valore Militare fu concesso il privilegio di inaugurare,
nella capitale del Regno, la Via dei Trionfi. La strada, oggi in parte deviata
dal suo percorso originario, si sviluppava lungo le attuali via di San Gregorio
e via dei Verbiti, passando intorno all’Arco di Costantino andando a confluire nell’attuale
via dei Fori Imperiali (già via dell’Impero, inaugurata nel 1932). (Fig. 1)
L’istituto
del Nastro Azzurro organizzò la partecipazione all’evento in maniera
magistrale, decine di migliaia di decorati confluirono nella Capitale provenienti
da ogni parte d’Italia per partecipare a quella che venne anche denominata “Prima
Adunata Nazionale”.
Per
l’occasione, ad ogni decorato partecipante all’evento fu assegnata una “Tessera
– Adunata” nominativa e numerata che costituiva il titolo di viaggio gratuito
per recarsi a Roma sui treni ordinari o speciali. Treni speciali partirono da
Trieste (N.1), da Bolzano (N.2), da Milano (N. 3), da Torino (N. 4), da Reggio
Calabria (N.5) ed infine da Lecce il Numero 6. (Fig. 2, 3, 4).
A
tutti i partecipanti, oltre la Tessera, venne distribuita la medaglia
commemorativa dell’evento (Fig. 5) e un distintivo rappresentante l’Emblema
Araldico dell’Istituto.
Il
Popolo d’Italia del 27 ottobre riportava le immagini degli oggetti distribuiti
ai decorati. (Fig. 6)
Nella
prima mattinata del 28 ottobre, presso la Stazione Termini, iniziarono ad
affluire le bandiere delle Forze Armate e i gonfaloni dei Comuni decorati al
Valore Militare, migliaia di decorati si ammassarono in perfetto ordine nel
piazzale antistante la stazione. Mentre il corteo iniziava a comporsi per lo
sfilamento, la banda dei Carabinieri a cavallo, con l’esecuzione della Marcia
Reale annunciava l’uscita dalla stazione delle 25 bandiere decorate al Valore
che si avviavano per prendere posto alla testa del corteo. I reparti schiarati
presentarono le armi e, contemporaneamente, le rappresentanze dei decorati e le
folle presenti si posizionavano sull’attenti.
Le
bandiere di esercito, marina, aereonautica, truppe coloniali e Comuni decorati
al Valore Militare, nel rispettivo ordine di sfilamento, erano precedute da uno
squadrone di Carabinieri a cavallo e dalla banda musicale dei Carabinieri, dietro
le bandiere seguiva un reggimento di formazione. Il corteo proseguiva con il
labaro del “Partito”, scortato del segretario on. Starace e dal vicesegretario
on. Marpicati, nonché dalla 112a Legione della Milizia, dietro di
questi, il labaro con il Direttorio del Gruppo Medaglie d’Oro e il labaro con il
Direttorio del Nastro Azzurro.
Perfettamente
inquadrati seguivano i Gruppi degli ufficiali, dei cappellani e dei sottoufficiali
decorati. Un plotone di Carabinieri a cavallo chiudeva il corteo.
Il
corteo iniziava il percorso dirigendo, tra file festanti di cittadini, verso
piazza dell’Esedra passando per via Principessa di Piemonte dove era schierata
una centuria di Balilla moschettieri che, al passaggio del corteo, presentava
le armi. In via Nazionale, balconi con drappi tricolori e con i colori della
Capitale, facevano da cornice a due ali di folla esultante che si prolungavano
sino a piazza Venezia.
Al
Vittoriano erano schierati, da un lato le Giovani Italiane mentre sul lato
opposto trovavano spazio i Marinaretti, i Balilla, gli Avanguardisti e i
Giovani Fascisti, di fronte a questi erano schierate oltre 40.000 Camice Nere
appartenenti ai gruppi rionali romani. L’ Associazione dei Mutilati, quelle dei
Volontari, dei Combattenti, le diverse Associazioni d’Arma nonché le
organizzazioni sindacali e dopolavoristische, erano invece schierate sulla via
dell’Impero sino alla Basilica di Massenzio, dove era stato eretto il palco
reale, addobbato di velluto cremisi e di un baldacchino con la corona reale
ricamata in oro. Seguivano le tribune per le autorità, il corpo diplomatico e gli
invitati. Sul lato opposto, davanti al palco reale, prendevano posto le madri e
vedove dei Caduti in guerra e le donne decorate al Valore Militare.
Prima
dell’Arco di Costantino, prendevano posto i presidenti di Senato e Camera,
Ministri e Sottosegretari, Senatori e Deputati nonché le alte cariche dello
Stato decorate al Valore Militare. Duecento tra labari e fiamme delle sezioni
del Nastro Azzurro erano schierati assieme ai componenti del Consiglio
nazionale dell’Istituto, ai mutilati, arditi e volontari decorati al Valore
Militare.
Attraversato
l’Arco di Costantino, il corteo si schierava e si disponeva ad ascoltare il messaggio
del Capo del Governo, letto dal Segretario del Partito.
Alle
11,15 gli squilli degli “attenti” avvisavano dell’arrivo del Re che veniva
accolto dalle autorità presenti.
Montato
a cavallo il Re passava in rassegna i reparti e i gruppi schierati per “saluto
al Re!”, la rassegna terminava intorno alle 12.
Conclusa
l’inaugurazione della nuova via dei Trionfi, le autorità e il Direttorio del
Nastro Azzurro si spostavano nella già gremita piazza Venezia dove, dopo aver
reso omaggio al sacello del Milite Ignoto, assistettero al discorso del Duce.
In questa occasione venne consegnato al Direttivo del Nastro Azzurro il nuovo
labaro nazionale.
La
cerimonia ebbe grande risalto nella cronaca dei quotidiani nazionali che
dedicarono la prima pagina, quanto nei periodici (si tralascia in questa sede
ogni commento sulla stampa durate il ventennio); anche La Tribuna Illustrata,
l’Illustrazione del Popolo e La Piccola Italiana, dedicarono la prima pagina
corredata da rappresentazioni della cerimonia (Figg. 6,7,8,), l’Archivio
Storico dell’Istituto Luce conserva decine di fotografie dell’evento.
Per
il Nastro Azzurro fu un momento di grande esposizione mediatica, ma anche di
definitivo assoggettamento al regime, durante il conferimento del nuovo labaro
nazionale “all’aristocrazia della guerra”, il Capo del governo stabilì la nuova
consegna: “… Fate che le glorie del passato siano superate dalle glorie
dell’avvenire!”.
Fonti
Archivio
Storico della Stampa, 28 e 29 ottobre 1933
Archivio
Storico del Popolo d’Italia 27, 28,29 ottobre 1933
Archivio
Storico Corriere della Sera, 13, 28, 29 ottobre 1933
martedì 12 novembre 2024
lunedì 11 novembre 2024
domenica 10 novembre 2024
Propaganda di Guerra. La battaglia dell'Atlantico. La battaglia dei Convogli
sabato 9 novembre 2024
LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA II Parte
APPROFONDIMENTI
Sergio Benedetto Sabetta
( Seconda parte)
LA MEMORIA E LA STORIA
Attualmente
vi è la tendenza a ridurre la storia ad una serie di fatti autonomi, non calati
nel contesto, vi è quindi una distorsione della loro lettura.
Si arriva
addirittura a cancellare la storia quale elemento superfluo, vivendo in un
eterno presente, fondato sul concetto economico neoliberista per cui tutto si
ridurrebbe al solo aspetto economico di una continua crescita quantitativa del
consumo, indipendentemente dalla qualità.
Si introduce
l’idea della a-storia quale “fine della storia”, seconda una visione messianica
non realizzatasi, ma la rinuncia alla propria storia crea una debolezza
identitaria che ne favorisce la manipolazione, una rivendicazione di diritti
senza chiari doveri che in tal modo vengono a disarticolare il tessuto sociale.
L’Occidente
soffre di tre crisi: psicologico – culturale, demografica e di una visione
strategica condivisa, questo favorisce la volontà di affermazione di altre
potenze globali che si ritagliano proprie aree geografiche di influenza.
In questo
contestare la supremazia occidentale, rappresentata dagli USA, rientrano gli
eccessi della cultura woke e della cancel culture, nate in California, che
creano un senso di colpa nell’Occidente senza cogliere la dimensione
progressiva della storia.
La memoria è
dinamica e quindi strettamente connessa alla libertà, la sua cancellazione in
un continuo presente ( a- storia) conduce alla perdita inconsapevole della libertà,
indolore ma per questo più profonda e subdola.
Ne sono
testimonianza le continue polemiche sulle varie figure storiche e fatti che
vengono astratti dal contesto storico,
per divenire puro strumento di lotta ideologica avulso da qualsiasi riflessione
storica, come il disamore verso la nostra cultura che rende indifferenti alla
perdita di tradizioni e artigianato in una male intesa globalizzazione, a
questo si oppone quale richiamo la presente pubblicazione.
L’Italia ha
una storia particolare, è fondata sulla storia, incrocio di tre continenti è
una penisola posta al centro del Mediterraneo, ricca per il suo valore
strategico, economico e culturale, sempre contesa dai potentati esterni e
indebolita internamente da quello che “ Foscolo nella – Lettera apologetica -,
vedeva nell’interessata collusione degli intellettuali italiani”, e non solo, “
con lo straniero il pericolo sommo” ( 50 – 51, Il futuro della memoria, AA.VV.,
Limes , 4/2024).
Altipiani
Il fronte
sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché
l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da
una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini,
furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali
italiani, di un effetto veramente schiacciante.
La Strafeexpedition travolse l’intero
altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e
Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.
La battaglia
avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri
colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i
feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima
linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca
resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle
dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento
oltre il Piave fino al Po e al Mincio.
Si giungeva
nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo un lungo errare per camminamenti sconosciuti ,
ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto
immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre,
come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena
bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.
I rincalzi
venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un
simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza
ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o
indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe
stato troppo duro riconquistare la cima.
Colbricon
Il Colbricon
è tagliato netto in due da una parte un pendio agevole di sassi, di grandi
rocce e di pascoli, percorso da
frequenti piccoli rigagnoli d’acqua: il
versante nemico. Da questa parte una parete verticale sotto le cui altissime
pale vi sono sentieri vertiginosi, terrazzini aerei, ballatoi tremanti, scale
verticali per vincere il precipizio: le posizioni italiane presidiate da fanti
e bersaglieri, non dunque alpini, la brigata Calabria.
Questa
brigata costituita da pastori jonici, contadini umbri, maremmani e ciociari, in
gran parte con veneti della costa o delle paludi, questi tennero le posizioni a
2.700 metri contendendole agli austriaci in sortite sulle sassaie perennemente
ingombre di neve, perdendole e riprendendole.
Nella parte
inferiore del monte vi erano le baracchette scavate nella roccia dove
alloggiavano ufficiali e telefonisti, più in alto le nicchie e i covi a cui si
accedeva per scalette piantate nella roccia. Nelle nicchie e nei buchi vicino
alle feritoie vi erano le coperte da campo, le cartoline in franchigia, le
gavette, i calzari contro il gelo, le “fipe” già discaspulate.
Carso
Non è Carso,
il Podgora è il Podgora. Quando nella primavera del 1915 i primi reparti
valicarono il confine, i battaglioni si nutrivano di ciliegie e frutta raccolta
sul posto in quanto il rancio non arrivava, ma avanzavano fiduciosi nelle nuove
terre finchè vennero bruscamente fermati da queste irte difese.
Allora si
interrarono e restarono fermi per mesi e mesi, ficcati nel suolo che in autunno
si trasformò in un fondo pantano, con ricoveri di fango che crollavano addosso
per la pioggia, senza ranci caldi, andando all’assalto dei reticolati intatti,
senza adeguati tiri d’artiglieria a copertura senza elmetti e con le sole
forbici tagliafilo, gli ufficiali in diagonale e fregi argentati sguainavano
negli attacchi le sciabole brunite.
Tuttavia in
un impeto giovanile venivano lanciate all’assalto e rilanciate in una
carneficina le brigate Pistoia, Pavia, Re, Casale, Carabinieri, sotto il fuoco
delle mitragliatrici e della fucileria rotolavano giù per il pendio i morti e i
feriti con gli sbandati, ma bastò un giorno che un trombettiere della brigata
Re caporale Ippolito suonasse nella tromba a vanvera tutte le arie della
caserma, “cappella marca visita” e “adunata seconda compagnia”, perché le schiere
si riordinassero e tornassero nuovamente all’assalto dei reticolati intatti, la
morte non fu più un’attendere ma divenne una costante del fante.
Nel Carso
accanto al Podgora vi è il San Michele dove vi era una palude morta il lago di
Doberdò, qui si arrestarono per lunghi mesi
gli sforzi degli assalitori, per superarlo al volo dopo la conquista di
Gorizia, la valle non fu mai commemorata come luogo di battaglia.
Doberdò sia
gli italiani che gli austriaci lo chiamarono concordemente l’inferno, come la
cima del San Michele che fu detta dagli ungheresi “il monte dei cadaveri” tanti
erano ammucchiati che ne aveva mutato il profilo.
In queste
buche mezze colmate di fango irruppero i fanti della Perugia, fasciati i piedi
dai sacchetti per la sorpresa notturna, il terreno era duro e di sasso come i
parapetti delle trincee dove non si era avuto il tempo o i mezzi per scavare.
Quando i proiettili dell’artiglieria
vi battevano dentro le schegge si moltiplicavano, esse cadevano tutto intorno
in una grandine di pietre, quelle trincee e quei camminamenti durante le piogge
si convertivano in torrenti di fango, in fosse di melma alta e densa che
cancellava mostrine, uniformi e connotati alle persone, passando con uguale
intonaco viscido sulle armi, sulle ferite e sui cibi.
Dai posti avanzati durate le tregue
del fuoco, i fanti potevano vedere, immersi nelle trincee, nella pianura
Gorizia avvolta nella caligine come una meta lontana e preclusa.
Ortigara
Da un lato la montagna cade a piombo
sulla Valsugana, scendendo rapida sul Passo dell’Agnella da dove venne
l’attacco, dall’altro lato l’altopiano si estende senza forma né confini per
leggere valli e modeste ondulazioni, arido simile a un gigantesco Carso, dove
le doline si chiamano buse, le quote s’innalzano a 1.500 e a 2.000 metri:
Campigoletti, Cima Lozze, Caldiera, Campanaro e il famigerato Corno di Campo
Bianco, nido degli osservatori austriaci.
Vi erano dalla parte italiana 26
battaglioni alpini, due brigate di fanti, un reggimento di bersaglieri, con
batterie da montagna in prima linea a tirare a raso zero. Dalla parte austriaca
i battaglioni scelti del celebrato “III Corpo d’Armata di ferro”.
La battaglia durata venti giorni fece
tuonare più di quattromila bocche da fuoco tra cannoni, obici, mortai, bombarde
e nuvole di gas e fiamme sopra pochi chilometri quadrati, mentre gli austriaci
erano insediati in caverne organizzate delle quali i nostri bollettini ne
tacquero l’esistenza.
La carneficina causò tra le nostre
fila 30.000 perdite fra morti e feriti, in poche ore dei reparti coinvolti ne
restavano avanzi sparuti, “i battaglioni ritirati dall’inferno dell’Ortigara
sono scorie”, come riferisce la relazione ufficiale austriaca, si comprende
così il grido disperato di quei fanti della brigata Regina dopo venticinque
mesi di guerra: “Ridateci il nostro Carso!”.
Nella primavera del 1917 i soldati
non credevano più alla propaganda sulla vittoria ma non si pensava alla
sconfitta, erano come dei sonnambuli, quasi bambini dallo sforzo di non pensare
troppo, due anni di guerra aveva scavato un abisso tra il paese e il fronte,
allora nel paese non vi era quel desiderio di finire presto questa guerra, con
il malcontento per il vitto sempre più raro, per il disagio crescente, lo
scontro tra soldati in linea e imboscati, e campagne assenti per mancanza di
braccia.
In linea, al contrario vi era un
rassegnato adattamento a dover lasciare
prima o poi la vita in questa mattanza che non finiva più, tuttavia
annebbiati in quell’apatia che diviene spesso una benefica anestesia, gli
ordini delle varie operazioni si eseguivano senza ribellione e fede anche nel
prevederne il fallimento. Talvolta
l’inerte ubbidienza cedeva a improvvise ribellioni immediatamente represse con
ferocia.
Nonostante fossero sfiduciate
sull’Ortigara le truppe rimasero fedeli e uscite dalle trincee riuscirono a
conquistare le tre cime, tuttavia sul fianco sinistro l’offensiva era fallita
ed era stata del tutto abbandonata.
Ricevuto l’ordine di fermarsi sulle
posizioni conquistate si trincerarono e in uno spazio incredibilmente ristretto
decine di migliaia di uomini furono
investiti dal fuoco delle artiglierie, da nuvole di gas e torrenti di liquidi
infiammabili, le tre cime furono perse e riconquistate tra attacchi e
contrattacchi respinti mentre le retrovie subivano furiosi bombardamenti.
Si racimolarono gli ultimi brandelli
di battaglioni, due battaglioni rimasti per miracolo intatti furono anch’essi
buttati nel fuoco e si andò all’attacco riconquistando il terreno perso e
facendo dei prigionieri, per cinque giorni si rimase inchiodati sulle posizioni
riconquistate disfacendo gli ultimi reparti.
Venne alfine l’ultimo attacco nemico
che travolse la cima riconquistata ma si riuscì a contenerlo arrestandolo poco
sotto, solo quando arrivò l’ordine di rientro, a scaglioni si sganciarono, una
squadra del battaglione Cuneo non venne informata dell’ordine del ripiegamento,
rimase tutta la notte e tutto il giorno seguente al suo posto rientrando illesa
ventiquattro ore dopo, con il nemico che dubbioso della sua vittoria non aveva
osato scendere dalla cima.
Guardando fuori dalle trincee della
Caldiera si vedeva l’Ortigara cambiare colore, fumare in giallo e nero per le
esplosioni ed i gas, ma nonostante tutto si resisteva nonostante lo scoramento
e la mancanza di un senso nella lotta quotidiana se non sopravvivere, in uno
scatto di orgoglio la frase la disse per tutti l’alpino Santino Calvi del
battaglione Bassano : “ Vedrete oggi, come sanno morire gli alpini italiani !”,
e morì. “ Me fa pecà” ricordò il vecchio alpino del Val Brenta.
Monte
Grappa
La cima del Grappa è ancora incisa
dalle trincee e scavata da chilometri di caverne, oggi spianata da un Ossario,
cimitero monumentale per i caduti che tra il 1917 e il 1918 trasformarono la
montagna nel cardine della difesa tra la pianura del Piave e le catene montuose
del Trentino.
Il 24 ottobre 1918 da questo monte
iniziò l’ultima battaglia, quella della vittoria, fu una lotta dura e feroce
esasperata dalla volontà di resistenza dei nemici, in Europa vi era una
stanchezza per la guerra infinita, i cittadini tumultuavano, vecchie e nuove
nazionalità esplodevano in ribellione e i diplomatici pensavano già al dopo
guerra.
Sulle balze del monte le migliori
truppe d’Italia e quelle più solide dell’Austria si scontravano furiosamente,
brigate di fanti fatte con le reclute del 1899, ma inquadrati da veterani delle
battaglie precedenti,reparti d’assalto di fiamme nere e fiamme rosse, vecchi
battaglioni d’alpini che si erano già
scontrati sulle Tofane, sull’Ortigara, sul Vodice e sul Tomatico, iniziarono
l’ultima battaglia per stornare il nemico dal piano e dal fiume Piave.
Nella nebbia mattutina escono gli
arditi del XXIII reparto d’assalto e fanti della Pesaro contro il Pertica, gli
arditi del IX reparto e fanti della Bari contro l’Asolone, gli alpini e i fanti
della Lombardia e dell’Aosta contro i Salaroli e il Valderoa. Il primo giorno
della battaglia non porta altri vantaggi che la conquista del Valderoa.
Il 25 la brigata Pesaro conquista il
Pertica e riesce a conservarlo, l’Asolone è preso dagli arditi che balzano
oltre l’obiettivo dell’assalto fino a raggiungere il Col della Berretta, più
tardi riconquistato con un violento attacco dal nemico che annienta i
difensori, al Col del Cuc, ai Salaroli e oltre il Valderoa gli italiani vengono
fermati dai reticolati intatti, dalle difese scavate nella roccia e dalla
nebbia.
Animose pattuglie si fanno sotto i
reticolati, li riescono a valicare, ma i rincalzi non possono seguirli, sono
quindi distrutte, altri reparti ne imitano l’eroismo subendo la stessa sorte, i
veterani sentono per la prima volta dietro di sé l’intero paese.
Nel disfacimento del vecchio Impero
austriaco, vengono a rinforzo gli ultimi
soldati delle divisioni di Boroevic,
questo è l’ultimo duello, devono resistere e riescono a farlo bene nella
ricerca di un armistizio onorifico al fine di salvare l’Austria dall’invasione
e con essa la corona all’Imperatore.
Avanza la celebre divisione Edelweiss, e con essa i territoriali
croati del 27° reggimento che si offrono volontariamente per la battaglia,
ignari che tra una settimana si proclameranno nostri alleati, i Galiziani del
120° , i Cechi e i Bosniaci, mussulmani realissimi a Sua Maestà Imperiale.
Alla testa avanzano le Sturm-truppen , truppe d’assalto con
alla testa il terribile 55° reparto,
seguono le divisioni di riserva tenute in serbo negli alloggiamenti tra il
Piave e Belluno.
Gli Austriaci sanno che il Piave è in
piena e che la corrente travolge i ponti, gli Italiani sono in crisi nel
forzarlo, si cerca di capovolgere l’esito della battaglia sulle pendici del
massiccio del Grappa.
La notte del 26 ottobre il
battaglione alpini Aosta a selletta Valderoa viene attaccato e resiste
contrattaccando per 12 ore, quando finalmente arrivano i rinforzi poche decine
di uomini rimangono validi: 10 ufficiali morti e 15 feriti, 130 soldati morti e
640 feriti danno al battaglione, già distrutto un anno prima al Vodice due anni prima al Pasubio, il titolo
nobiliare di “massacratissimo”.
Gli alpini del Pelmo e reparti della
Bologna occupano Col del Cuc, sull’Asolone fanti della Forlì e arditi XVIII
reparto per venti volte assaltano le trincee nemiche finché alla sera la
montagna rimane agli austriaci.
Il 27 ottobre cade il Valderoa invano
difeso fino al totale annientamento da una compagnia del battaglione Cadore
senza più ufficiali ed ai superstiti del battaglione Aosta. Anche il Pertica è
perso, riconquistato e riperduto, alla sera il Pertica è nuovamente e
definitivamente italiano, ma gli austriaci serrano minacciosamente ancora
sotto.
Il 28 è un giorno di tregua relativa,
il 29 la battaglia divampa ancora con rinnovata violenza, arditi e fanti della
Calabria si dissanguano sul Col della Berretta,altri reparti di arditi
riprendono l’Asolone ma vengono di nuovo scacciati, ben 17 assalti vengono
respinti finché con tenacia i reparti della Siena irrompono sulla vetta e la
difendono contro rinnovati attacchi nemici che tuttavia alla sera riescono a
scacciarne gli italiani, l’ultimo sforzo vittorioso austriaco.
Tuttavia il nemico è caduto nel tranello
riversando sul Grappa la maggior parte delle riserve e logorando le sue truppe
migliori, sul Piave nel frattempo la battaglia è vinta con la presa della piana
di Sernaglia, viene pertanto dato l’ordine dal Comando Supremo all’Armata del
Grappa di sospendere l’offensiva costata la perdita di trentamila uomini.
( Paolo Monelli, Sette battaglie,
Treves 1928)
venerdì 8 novembre 2024
LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA I Parte
APPROFONDIMENTI
Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta
( Prima parte
)
Alta Montagna
Quando si sale per un sentiero di montagna o un nevaio particolarmente difficile tra gli alpini della Grande Guerra vi era il detto “ Passa parola che la monta”, queste parole sono particolarmente confacenti alla guerra in alta montagna tra i 2200 e i 3700 metri di Monte Nero, Alpi di Fiamme, Tofàne, Monticelli, Poi Crozzon di Lares , Loccia Alta, Dosson di Genova, il Mantello ed il San Matteo, la più alta battaglia combattuta nella storia.
Il 15
giugno del 1917 sul ghiacciaio di Lares gli sciatori del Capitano Calvi si
esposero al fuoco delle mitragliatrici austriache per distrarre i difensori, mentre gli alpini del battaglione Val Baltea
scalarono il picco su una parete talmente liscia che bastava un solo tiratore
austriaco per fermarli, finché arrivati in cima conquistarono il Corno di
Cavento sorprendendone i difensori.
Sul
Passo della Sentinella e sulle posizioni di Cima Undici vi erano le baracchette
su cengine incastrate fra le rocce tenute su con le funi, le finestrelle si
spalancano sul vuoto mentre le porte possono diventare trabocchetti sull’abisso.
Il
Piccolo Lagazuoi fu demolito tre volte il 23 maggio 1917 gli Austriaci fecero
scoppiare la seconda mina che determinò il crollo di un suo superbo pinnacolo
su cui vivevano aggrappati i plotoni alpini del Val Chisone.
Un giorno arrivò un ordine, tutti gli
ufficiali scapoli del battaglione a turno dovevano andare in fondo ad una
determinata grotta ogni giorno per un’ora, questo al fine di sentire se e come
lavorava la perforatrice austriaca che stava preparando la camera di scoppio.
La
sorveglianza era pericolosa, si preferiva piuttosto andare all’attacco per
crode e baranci in quanto gli austriaci anche se avevano finito il lavoro
mantenevano in funzione la perforatrice per ingannare, così si aspettava con le
orecchie sul geofono temendo un’esplosione da un momento all’altro.
Fortunatamente
dal Col di Lana gli italiani potevano osservare il rovescio delle posizioni
nemiche e il giorno in cui non videro più lo sgombro dei materiali di scavo
diedero l’allarme, essendo il lavoro di scavo finito. Si restò in attesa dello
scoppio finale.
La notte
della mina appena cessò il rombo dell’esplosione e gli echi di valle in valle
con sorpresa degli austriaci si udì suonare un’allegra fanfara alpina su per la
cengia Martini, una beffa di guerra, come avveniva molte volte in questa lotta
in alta montagna. Un caso analogo avvenne con il Capitano Rossi della 96°,
Battaglione Antelao che fece squillare la fanfara per incoraggiare i suoi
alpini nello scontro sul masaré di Fontananegra.
Nel
Piccolo Lagazuoi il presidio del Dente fu ritirato prima dello scoppio,
rimasero sotto al crollo le poche sentinelle che guardavano la punta estrema
della cengia, una volta avvenuto lo scoppio la compagnia che si era ritirata
passò al contrattacco e alla baionetta ricacciò gli austriaci facendo suonare
le trombe e i bombardini e cantando le canzoni degli alpini piemontesi: “Fieui partouma, sentì le fanfare…” .
La lotta
era di pochi contro pochi, viso a viso, vedendo in faccia il nemico, per
posizioni che a 3.000 metri bastavano un caporale e tre uomini oppure trenta
tonnellate d’esplosivo e un anno di scavi, su pinnacoli tanto aguzzi che
bisognava legarsi per dormire.
Quando
sulla Tofana di Rozes si riuscì a issare un cannone, al primo colpo, mentre
alpini e serventi ne osservavano gli effetti sul fondo valle, il cannone
lentamente incominciò a retrocedere finché fini per rotolare mille metri più sotto, dove rimase fino a fine guerra.
Le
battaglie cominciavano solo dopo ore di
arrampicata sulla roccia, a furia di corde, picozze e chiodi nella muraglia,
digiuni, infreddoliti, recando sulle spalle viveri, bombe e mitragliatrici,
quando si era sull’orlo della cima si veniva coinvolti in una mischia mortale,
nel caso delle mine queste erano precedute da studi minuziosi e scandagli lungo
le pareti legati a corde pendenti nel vuoto.
Questa
tipologia di lotta spiega due cose, la personificazione che i soldati avevano
degli elementi naturali entro cui si viveva prima ancora che contro il nemico,
esseri soprannaturali e maligni che si dovevano combattere, inoltre in secondo
luogo l’umile grado di questi “eroi” appartenenti tutti alle gerarchie
inferiori.
Talvolta
agli scoppi si sovrapponevano i boati delle valanghe, masse enormi di neve
slittavano dalle creste precedute da un freddo vento e nel precipitare di una
nuvola di neve batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni
interi erano seppelliti senza lasciare traccia, coloro che ne scampavano,
tratti fuori dalla massa bianca, non potevano più sopportare coltri pesanti
avendo l’incubo della soffocazione.
Monte Nero
Spunta l’alba del
sedici giugno,
comincia il fuoco
d’artiglieria,
il terzo alpini è per
la via
Monte Nero a
conquistar.
Così
comincia la canzone di gesta del Monte Nero, parole semplici, ritmo lamentoso,
come nacque la sera dopo la battaglia, il testo originale fu scritto su un
pezzetto di carta dall’alpino Domenico Borella che aveva partecipato alla
battaglia.
Come
coloro che partecipando ad una battaglia non si accorgono del mito che su di
essa si forma Borella intitolò così la sua creazione : Cansone omoristica del 3° Reggimento Alpini alla conquista del Monte
Nero.
Quando fummo a trenta
metri
dal nemico ben
trincerato,
un assalto disperato
il nemico fu
prigionier.
L’attacco al Monte Nero avvenne
ad opera della 84° compagnia dell’Exilles, capitano Arbarello, che si arrampicò
per l’esile costone Sud-Ovest del monte, in fila indiana rapidi e silenziosi su
rocce a picco.
In testa vi era il sottotenente
Picco con cinque alpini, veniva dietro il capitano Arbarello con un plotone di
cinquanta uomini a cui seguivano quale rincalzo altri due plotoni, fucile a
tracollo, tascapane con viveri e cartucce, niente bombe a mano in quanto si era
all’inizio della campagna e le bombe a mano le avevano solo i nemici.
Poco
sotto la vetta il sottotenente Picco irrompe con i suoi cinque alpini,
conquista la posizione, ma si prende una pallottola nel ventre e muore, accanto
a lui muoiono altri due soldati, il
nemico è comunque rigettato dal monte e in pochi minuti la cima ritorna
silenziosa.
Contemporaneamente
vi è l’attacco della 35° compagnia del Susa, capitano Varese, che conquista le
difese laterali del monte con un assalto frontale, sotto un fuoco micidiale, le
perdite sono maggiori, muore il sottotenente Vallero ma la conquista è rapida e
sicura.
Altra
azione è quella della 31° compagnia dell’Exilles, capitano Rosso, che sale
sulla neve all’attacco della colletta del Monte Nero, così presa da tre parti
con un’azione fulminea, “un colpo da maestro” come fu riconosciuto dagli stessi nemici.
La sera
il maggiore Treboldi, comandante del settore annunciava in prosa burocratica la
vittoria, seicento prigionieri , centotrentotto nemici morti accertati.
La
battaglia si estese al vicino Monte Rosso, più piccolo del Monte Nero dove
tuttavia vi furono attacchi e contrattacchi, bisognava difendere la conquista con
pochi mezzi, difficile risultava collocare i reticolati sulla roccia liscia,
poche le munizioni, scarsi i viveri, vi era una sola coperta per soldato con
una notte estremamente rigida.
Il
capitano Arbarello aveva dato ordine sulla cima ad ogni soldato di ammucchiare
davanti a sé più sassi possibili, nella notte salirono i bosniaci Arbarello
attese che fossero proprio sotto poi diede un ordine – Roc a la man, (sassi alla mano) – e dopo una pausa – Alè, fieui, (tirate figlioli) il nemico
non riuscì a porre piede sulla cima.
E per venirti a
conquistare
abbiamo perduto tanti
compagni,
tutti
giovani sui vent’anni,
la sua vita non torna
più.
La
montagna altissima sulla bassa valle, elettrica di roccia nuda, appena cambiava
il tempo era rigata da correnti crepitanti, bastava appoggiare il fucile alla
roccia per vederlo percossa da continue piccole scariche, nelle notti di
burrasca vi era un lampeggiamento senza tregua, si vedeva come di giorno.
Le
tormente di neve duravano ininterrotte per quattro o cinque giorni, obbligavano
gli uomini nel baracchino, seppellivano ogni ricovero, quando tornava il sereno
si cominciava a scavare nella neve fresca per cercarsi, c’era sempre qualcuno
che mancava all’appello.
Non su
questa montagna, ma sotto una valanga morì lo stesso capitano Arbarello
soffocato dalla massa nevosa che aveva schiacciato la sua baracca, prima di
morire il capitano scrisse sopra un pezzo di carta “Muoio asfissiato per
l’Italia. Ho fatto di tutto per salvare il mio tenente …” e qui cadde la penna.
Era
chiamato affettuosamente dai suoi alpini “papà”, burbero affettuoso quando
cominciavano a tremare dalla commozione i suoi baffoni neri, perché i soldati
non se ne accorgessero si metteva ad urlare con il suo vocione. Ad un ferito
che si lamentava per il freddo commosso gridava “non ti vergogni?” poi lo
copriva con la sua mantellina.
Ecco
perché un altro soldato ha aggiunto al manoscritto di Domenico Borella l’ultima
strofa
Il colonnello che
piangeva
a veder tanto macello:
fatti coraggio, alpino bello,
che l’onore sarà per
te.
Altipiani
Il
fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico,
finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu
annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale
Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi
ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.
La Strafeexpedition travolse l’intero
altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e
Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.
La
battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli
autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e
caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero
sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto
opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle
spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un
arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.
Si
giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo un lungo errare per camminamenti sconosciuti ,
ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto
immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre,
come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena
bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.
I
rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché
c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi
senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o
indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe
stato troppo duro riconquistare la cima.