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Il vertice militare
italiano ebbe una evoluzione degna di nota, in vista della organizzazione
postbellica delle Forze Armate. Oltre a due casi di stretta natura politica che
preannunciavano i nuovi equilibri politici in Italia, vi fu il passaggio di
comando dal Maresciallo Messe al generale Cadorna, comandate del Corpo
Volontari della Libertà, mentre sul piano operativo si assisteva alla entra in
linea del Gruppi di Combattimento.
I due casi politici
sotto linearono la dipendenza ancora completa dagli Alleati delle Forze Armate
italiane, dove tenevano banco il predominio degli Alleati ed i loro interessi.
Ai primi di gennaio 1945 il Governo Tito chiese in modo formale e perentorio
che l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Mario Roatta, venisse processato
come criminale di guerra; altrettanto aveva avanzato la medesima accusa nei
confronti del generale Taddeo Orlando, già ministro della Guerra, che aveva
svolto l’incarico di Comandante dell’Arma dei Carabinieri. Questa accuse
facevano sorgere un problema molto difficile per gli Alleati. Da un lato
avevano dato il pieno appoggio a Tito nella speranza di averlo dalla propria
parte, nel quadro della politica balcanica, soprattutto britannica. Tito aveva
ripagato questo sostegno, con il quale era divenuto l’assoluto padrone della
Jugoslavia, lasciando l’isola di Lissa, presidiata da truppe britanniche ed
aveva raggiunto il maresciallo sovietico Tolbukin in Romania, pregando di inviare
reparti dell’Armata Rossa a liberare Belgrado. Era una aperta ammissione che il
comunista Tito sceglieva per il dopoguerra il campo non occidentale. Un
processo a Roatta, che era stato anche capo del SIM, il servizio Informazioni
Italiano, e che era in possesso di importanti documenti su Cherchill e la
politica inglese nei Balcani, significava mettere in mostra elementi che
avrebbero portato discredito a Londra e in generale agli Alleati
La soluzione fu
trovata con un espediente. Il 4 marzo 1945 il generale Roatta fuggì, o fu fatto
fuggire, dall’Ospedale Militare dove era ricoverato sotto sorveglianza. Dalla
vicenda Roatta emergeva una chiara linea politica. Gli Alleati mantenevano ed
esercitavano in Italia il potere di veto sulle decisioni delle autorità
italiane, pur essendo l’Italia cobelligerante, sulla scia dell’armistizio
“lungo”. E questo doveva essere tenuto presente quando gli interessi italiani
erano n contrasto con quelli alleati. A conferma di questo assunto si ha il
caso del gen. Berardi, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Berardi dal
novembre 1943 aveva sempre con decisione difeso le posizioni italiane,
soprattutto quando era in gioco il prestigio ed il valore del Regio Esercito.
Inoltre Berardi riusciva antipatico, se non proprio inviso a numerosi politici
italiani. E’ credibile che a deciderne l’allontanamento dalla carica di Capo di
Stato Maggiore siano stati gli Alleati, e che ai nostri uomini di governo più
d’uno dei quali fu sicuramente ben lieto di ottemperare. La sostituzione del
gen. Berardi era accompagnata in parallelo dal ridimensionamento delle
attribuzioni del Capo di Stato Maggiore Generale, in un quadro di reale
ridimensionamento del potere politico che i vertici militari avevano. Era in
iniziato il dopoguerra, in cui la componente militare fu via via estromessa da
ogni decisione politica. La sostituzione di Berardi aveva per gli Alleati un
preciso significato: togliere dalla scena un personaggio che avrebbe potuto,
dopo il Maresciallo Messe, rivendicare il coordinamento dell’attività operativa
dei Gruppi di Combattimento non solo per la carica ricoperta, ma anche per
l’azione appassionata e concreta svolta per l’approntamento di quelle Unità.[1] E’
significativo che a sostituire Berardi fu chiamato un generale di brigata,
Ercole Ronco, il quale essendo per grado o per anzianità di grado inferiore ai
comandanti dei Gruppi, non avrebbe potuto pretendere di sovraintendere
all’impiego in combattimento delle Unità italiane. Dietro la versione
ufficiale, che non ha alcun significato, vi era ben preciso l’interesse
alleato, soprattutto britannico di minimizzare la reale portata del concorso
operativo italiano
Ed evitare che ne
derivasse un nuovo prestigio alle Forze Armate italiane che avevano dato prova
di valore militare. Questa decisa presa di posizione era funzionale agli
interessi britannici, che in ogni settore volevano oltre che minimizzare
svalutare l'apporto italiano alla fase finale della guerra in Italia. Un
atteggiamento che trovava d’accordo molti esponenti dei nascenti politici
italiani e che si è riverberato nella nostra opinione pubblica, la quale ignora
questo apporto, che vedremo più avanti.
Nel solco di questa politica non si poteva non
arrivare all’avvicendamento del Capo di Stato Maggiore Generale.
Il 6 gennaio 1945 il Maresciallo Messe aveva
consegnato al gen. Alexander
der una nota con le
principali questioni concernenti l’Esercito italiano e le relazioni con i
patrioti e le forze della Resistenza. In questa nota prospettava la necessità
di una revisione del sistema di controllo attuato dagli Alleati nell’interesse
di una sempre più efficace collaborazione, anche per dare più prestigio e dignità
ai comandi intermedi e minori interessati; le opportunità di riunione sotto un
unico comando italiano tutti i Gruppi di Combattimento che in quel gennaio 1945
si accingevano ad entrare in linea. Questo era un altro punto della politica
svalutativa e minimizzatrice britannica. Non vi era intenzione di creare corpi
di armata italiani, ne tantomeno una armata italiana; i singoli Gruppi di
Combattimento, che erano a livello divisione, sarebbero stati impiegati
nell’ambito dei corpi d’armata alleati. Infine la nota si concludeva con la
richiesta di assorbire nell’esercito i partigiani mantenendoli uniti nelle
bande di appartenenza per non disperdere i legami morali stabiliti durante i
mesi della guerriglia. Nei mesi successivi il Maresciallo Messe svolse un’ampia
azione volta a sottolineare la fattiva e determinate partecipazione delle Forze
Armate alla fase finale della guerra con numeri che oggettivamente sostenevano
la sua posizione. In realtà era una azione destinata a cadere nel vuoto in
quanto sia i nostri governanti sia gli alleati, con i britanni in testa,
avevano tutto l’interesse, per diverse ragioni, a sminuire l’apporto, sia
operativo che logistico, delle Forze Armate.
Il 17 aprile 1945
Messe, ritenuto ormai esaurito il suo compito, annuncia le dimissioni da Capo
di Stato Maggiore Generale. Nominato nel novembre del 1943, scelti ottimi
collaboratori, come Berardi, Utili e tanti altri, Messe riesce a svolgere
un’azione ardua e efficace per avere unità da combattimento italiane in linea.
In modo diametralmente opposto a quello che farà Graziani nella Repubblica
Sociale Italian, riesce a tenere ben salda l’unità di comando, impedisce la
formazione di formazioni di combattimento fuori dalla autorità del Regio
Esercito, assorbe con costanza e intelligenza tutte le bande di partigiani che
via via vengono raggiunte con l’avanzata verso nord, portando nelle fila
dell’esercito il loro spirito di guerriglia e di innovazione, tiene fuori dalla
compagnie militare ogni interferenza politica, riuscendo a portare tutti gli
italiani, e non le varie parti, sotto un'unica bandiera. In pratica disegna i
cardini fondamentali sulle quali sarà costruito l’Esercito italiano della
Repubblica, che è giunto fino ai nostri giorni. Il 5 maggio 1945 fu nominato
Capo di Stato Maggiore Generale, il gen. Cadorna, comandante del Corpo
Volontari della Libertà.
[1] Loi S., I rapporti fra alleati ed italiani nella cobelligeranza, Roma,
Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, 1986,
pag. 118 e segg.
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