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domenica 11 settembre 2022

Tema di Tesi. La Violenza

 La metabolizzazione della violenza nella cultura occidentale

Ten cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

 

            Vi è nella cultura  europea una forte matrice di violenza che sembra riecheggiare quanto attualmente viviamo sia nell’attuale conflitto nell’Est Europa che nel mondo mussulmano, vi è nella realtà un rispecchiarsi di due mondi e culture nel quale quello che appare estraneo non è in effetti che il riflesso e la metabolizzazione della nostra storia culturale.

Nella Francia della metà del Cinquecento vi è un ribollire di violenza tra predicatori cattolici e predicatori riformati, la violenza della folla che appare informe come un’idra dalle mille teste risulta ad una più attenta analisi indirizzata verso bersagli precisi e fondata su tradizioni che la legittimano (Rude, Tilly, Le Roy Ladurie).

            Si è teso a delimitare la violenza a motivi economico-finanziari, dalle carestie al fiscalismo, dimenticando gli aspetti religiosi delle lotte tra cattolici e riformati, venendo ad assimilare queste ad una rivolta dei ceti popolari verso le classi superiori, i motivi sociali non possono tuttavia assorbire interamente le problematiche nate per esempio dalle violenze nei mestieri artigiani.

Resta la necessità riconosciuta collettivamente di una difesa della vera dottrina e della confutazione di quella falsa, vi è inoltre un’ulteriore motivo dato dalla necessità della purificazione quale termine alla degradazione portata dagli infedeli la quale risulta conduttrice della collera divina.

            A questi elementi se ne aggiunge uno propriamente politico, la sostituzione della folla all’inazione dei magistrati dando corso alla volontà legislativa inattuata (Thompson), sebbene difficilmente le autorità potessero legittimare una tale condotta, come del resto gli stessi predicatori indirettamente riconoscevano, insistendo sempre nella richiesta di azioni da parte delle autorità, tanto che neppure nella teoria della resistenza protestante si richiama il diritto dei singoli alla disobbedienza violenta, le folle nella Francia del Cinquecento indistintamente tendono a impersonare tanto i ruoli del clero che dei magistrati.

            La presenza nella folla di pubblici ufficiali o membri del clero ne legittimano di per sé l’azione, ma anche in loro assenza l’ambiguità di alcuni predicatori, che nel vuoto del potere giudiziario o politico che si creano talvolta nelle comunità tendono a legittimare ex-post l’azione violenta, distinguendo tra motivi sociali ed economici, come rivolte contadine o proteste di giornalieri, sempre rinnegate e violenze iconoclaste considerate quale espressioni di una possibile volontà divina, dove erano le “occasioni” a scatenare la violenza distinguendo tra città e campagne.

In queste ultime i conflitti socio-economici risultavano più evidenti, ma anche il chiaro riferimento ai repertori della Bibbia e della liturgia della giustizia popolare tendeva a legittimarne l’azione, acqua e fuoco ne costituivano la base, come il processo di disumanizzazione dove i nemici diventavano gli “appestati” o i “diavoli”.

            In queste violenze collettive un primo piano lo ebbero gruppi di “enfants” comprendenti maschi adolescenti ma anche bambini di dieci o dodici anni, di giovani si parla in quasi tutti i disordini dell’epoca dai Paesi Bassi alla Francia e la violenza è tanta da indurre perfino esponenti di famiglie famose a muoversi con prudenza, come nel caso degli adolescenti di    Sens e Provins  dove giovani cattolici lapidarono e bruciarono dei protestanti.

 La massa comunque non si muoveva mai casualmente  bensì su organizzazioni preesistenti che potevano essere le confraternite o le società giovanili per i cattolici, le unità della milizia o le corporazioni per cattolici e protestanti, che seguivano rituali ed occasioni precise non collegate direttamente alla violenza della sommossa, la quale era tanto più violenta in quanto collegata a precisi valori fondamentali della comunità che ne venivano a definirne l’identità.

            La connessione tra conflitti religiosi e sociali con il conseguente accrescersi della violenza emerge ancora più chiaramente nell’Inghilterra del XVII secolo, durante il periodo che precedette la guerra civile del Lungo Parlamento, un rapido accrescersi della popolazione urbana creò forti preoccupazioni quando andò ad inserirsi nelle lotte politico-religiose e nell’elezione del Parlamento, tanto da fare affermare ad Hooker che “i grandi movimenti dello spirito” possono diventare molto pericolosi se incontrano uomini pronti al tumulto e alla rissa, ancor più se come nel periodo 1620-1650 della storia Inglese vi fu un forte malessere economico attribuito alla cattiva amministrazione, all’istituzione dei monopoli e ad altri espedienti fiscali per fare cassa.

            L’insubordinazione sociale era anche frutto di una profonda tradizione popolare anticlericale e di irreligiosità che affondava le sue radici nell’eresia di John Wiclif e dei Lollardi, una sorta di scetticismo materialistico popolare (Dickens), ma altre forme di ribellione religiosa si manifestarono attraverso i Mariani, gli Anabattisti e i Puritani, una iconoclastia popolare contro l’intera istituzione ecclesiastica.

            Osservava a riguardo John Selden “Se un uomo afferma di aver preso le armi per qualsiasi ragione che non sia la religione, è possibile fargliele deporre usando la ragione, ma se è per la religione, qualunque cosa tu dica , non ti crederà”, molti predicatori indicavano nel popolo “La voce del Regno di Cristo” indicando al pubblico disprezzo il clero e anche talvolta identificando nei ricchi e potenti l’Anticristo.

La chiamata alle armi del popolo da parte del Parlamento, anche se incerta e dubbiosa, timorosa di effetti imprevisti, legittimava ulteriormente il ricorso alla violenza degli artigiani, dei contadini e di tutti gli strati più umili del popolo, lo sfaldarsi della censura e del controllo reale favorirono ulteriormente i richiami alla rivolta dei predicatori, che nella guerra dei trenta anni in corso sul continente vedevano l’indizio di un approssimarsi della morte del vecchio ordine e l’inizio di un giudizio universale, in cui i poveri e la gente comune avrebbero collaborato nell’avvento del Regno di Cristo, secondo una visione millenaristica.

            Predicatori quali Thomas Scott tra il 1620 e il 1630, Stephen Marshall tra il 1640 e il 1650, indicavano nella “vos populi” la necessità di una ribellione contro nobili, magistrati, cavalieri e gentry in generale in quanto ribelli e traditori contro Dio, fino ad affermare attraverso Christopher Feake essere la monarchia e l’aristocrazia “nemici di Cristo”, sorsero innumerevoli sette e la mancanza di un controllo ecclesiastico sul pensiero si rese evidente, con il tentativo di sostituire i tribunali ecclesiastici mediante un sistema disciplinare presbiteriano, con inevitabili forti reazioni di ostilità.

            Le trasformazioni economiche tra il XVII e il XVIII secolo, l’esplodere della popolazione, accrebbero la mobilità sociale con il conseguente crescere dell’inurbamento e del vagabondaggio, la città diventava un rifugio economico come le foreste nei secoli precedenti, una massa di manovra disponibile fondamentalmente apolitica e areligiosa, pronta a schierarsi con chiunque le fornisse dei favori.

Accanto ad essa vi erano i membri delle sette protestanti anch’essi liberi ma diversi, organizzati in un mutuo soccorso senza dovere dipendere da parroci e signorotti, concentrati nelle città si sentivano gli eletti del Signore, in un mondo di senza Dio e Anticristo fondavano la propria esistenza unicamente sulle leggi tratte dalla Bibbia.

Fuori dai centri urbani cottages e abusivi vivevano nelle foreste, nei terreni incolti e sulle terre comuni, verso di essi vi è una certa simpatia quali ribelli alle leggi delle classi superiori, come osservato nelle ballate popolari del tempo (Firth), ma erano gli artigiani e i commercianti girovaghi di fiera in fiera che favorivano la diffusione delle idee più radicali (Everitt).

            Tutti questi elementi che vivevano lontano dal controllo ecclesiale o regio e feudale erano estremamente ricettivi alle idee religiose più radicali o ad un primitivismo naturalista (Thirsk), le terre in cui vissero furono anche quelle dove vi furono le maggiori rivolte contadine nei primi anni del XVII secolo (Everitt), il Weald, le foreste del Northamptonshire, il distretto del Wiltshire, Ely, l’isola di Axholme, le brughiere del Cumberland furono tutte aree di ribellione.

 Walzer osserva che proprio il venire meno di un controllo esterno e la libertà che esso comporta fa sorgere la necessità di un forte controllo, che dia forma all’uomo nuovo e ad una disciplina collettiva base di una nuova società, a questa esigenza rispondono i Quaccheri e i Puritani, ma anche nelle epoche successive di grandi tumulti e scollamenti sociali i giacobini e i bolscevichi.

            Abitanti della foresta, artigiani e operai itineranti, girovaghi, ambulanti, vagabondi, disoccupati non costituivano solo la massa delle rivolte e delle idee radicali, ma anche il serbatoio a cui attingere non solo per nuove industrie, bensì anche per gli eserciti, gli equipaggi delle navi e le colonizzazioni per le Terre del Nuovo Mondo, dove acquisire un pezzo di terra era la promozione sociale.

Al contempo vi era la necessità da parte delle autorità di controllare e chiudere le taverne senza licenza, in cui facilmente gli artigiani erranti potevano trasformarsi in predicatori e se trovavano l’ambiente favorevole auto-proclamarsi nuovi Messia, creando rivolte, tumulti ma anche facendosi mantenere dai loro discepoli come nel caso di Mary Gagbury e William Franklin, ne è a riguardo dimostrazione il Vagrancy Act del 1656 diretto contro “tutti i girovaghi”.

            Come nella società stuartiana vi è sotto lo strato superficiale di ordine una matrice di violenza, che affonda le sue radici nell’idea messianica di una giustizia e felicità ultima su questa terra, ma anche una risposta tanto al collettivismo spinto di una promessa di welfare assoluto quanto all’individualismo più eccessivo, così la violenza che attualmente ci pare estranea non risulta che essere lo specchio di una parte dell’essere della nostra cultura su cui è nata la società industriale e post-industriale, un riflesso dell’occidente sul medio oriente, una sua trasposizione.  

Davanti alle attuali incertezze e spaesamenti al ripiegarsi degli adulti vi è un esplodere di rabbia dei giovani, “L’età delle rivolte è un’epoca di ribellismo spontaneo, che ha preso il posto delle precedenti forme di protesta, organizzate e inquadrate da sindacati , partiti e quant’altro” (M. Giro, Presbitocrazia : i giovani senza potere, 189, in Lines, 2/2017), dalla Francia nel 2005, alla Grecia nel 2008, all’Inghilterra e ai Paesi Arabi nel 2011, agli U.S.A. nel 2014 ,2015 e 2021 per non dire delle più famose, senza trascurare India, Spagna, Pakistan, Sud-America, Africa e attualmente il Sri Lanka la ribellione continua ad essere parte attiva del paesaggio politico e culturale attuale come nei secoli passati.


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