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giovedì 21 giugno 2018

La prigionia di Guerra al Femminile


La Prigionia di Guerra al Femminile

Massimo Coltrinari



Nella recente esperienza della missione in Irak, si affacciano all’orizzonte del nostro impegno militare, oltre a tutto quello che può essere operare in un teatro fuori area Nato e su un terreno diverso da quello nazionale, due novità: l’impiego in zona d’operazioni, ancorché a fini di pace, di personale femminile e quindi possibilità che questo personale possa subire una delle conseguenze dell’impiego in un conflitto, ovvero cadere in potere dell’avversario, cioè cadere prigioniero.
Le avvisaglie di queste novità le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: personale non militare femminile sono state prigioniere per un perizio relativamente breve di  “avversari”. Si fa riferimento alla vicenda delle due Serene e della giornalista Giuliana Sgrena. Da queste esperienze si ha la base per affrontare, almeno teoricamente, un argomento che spesso è ignorato e non affrontato per gli uomini, mentre per le donne non è nemmeno ipotizzato. La prigionia militare femminile è un argomento nuovo, non affrontato e soprattutto non pertinente, in “re ipsa”, come tutto quello che attiene alla prigionia di guerra stessa.
Il reclutamento del personale femminile nelle forze Armate ri recente nel nostro paese, dopo decenni di opposizione  è stato accolto come una grande conquista, un raggiungimento di livelli “come altre altre nazioni all’avanguardia”, ad altre attestazioni di autoesaltazione in molti casi fuori luogo. In realtà l’Italia ha avuto sempre scarsissime risorse da destinare allo strumento militare, l’unica risorsa che ha avuto in modo largo è stato il personale: il tasso di nascita in Italia è stato sempre altro e gli “uomini” sono sono mai amcati. Il problema è sempre stato come vestirli, armarli e nutririli nelle froze armatae in modo adeguato e in relazione alle necessità operative. E in presenza di scarse risorse, vestire e mantenere un uomo costa di meno che vestire emanate un uomo e una donna. Ma mai vi è stata una carenza di “materia prima” sotto il profilo del perronale. Con i tassi di natalità da “nazione civilizzata” ovvero bassi e piatti, questa risorsa è venuta meno; in più si è scatenato un movimento di “equiata” di cui propri non si sentiva il bisogno. Quindi queste deu componeti,anche in presenza di una riduzione di personale, ha fatto si che oggi, ritenendoci nazione “civile”, per dare pari opportunità alla donna, eccoci ad avere nelle Forze Armate uomini e donne, con il relativo aggravio di costi.
Ma non è solo questo. Sotto la divisa non si fanno distinzioni un soldato è un soldato, non vi è il soldato e la “soldata”: quando la bomba cade non fa distinzioni. E si deve ragionare in teremini di soldato, sia esso di sesso maschile sia di sesso femminile. Questo occorre sempre ricordarlo a chi, donna, indossa una divisa, qualunque essa sia. Non vi sono trattamente speciali e le conseguenze, se impreparti,possono essere devastanti. Oggi,in Italia, vedendo tante giovani che si pavoneggio nelle loro uniformi, che civettano con questi aspetti militarizzanti, un richiamo a quello che c’è dietro l’angolo, il rovescio della medaglia può essere utile per evitare traumi e tragedie future.
Quindi un soldato, disesso femminile, in linea anche in missioni di pace, può cadere in potere dell’”avversario” ovvero prigioniero. E qui occorre affrontare il tema e preparsvisi.
Non vi sono precedenti nel nostro paesi di prigionia militare femminile, ne tantomeno studi e riferimenti affinché questo tema sia sviscerato come dovrebbe. Ma vi sono esperienze analoghe, di Internamento in guerra e di Internamento di pace. Tralasciando l’Internamento di pace un buon riferimento può rappresentare l’Internamento di guerra, ovvero quella compoente dell’Inetrnamento in genrmania che ha interessato, per motivi raziali, politici ed etnici un buon numero di donne. Inoltre vi è una esperienza similare alla prigionia femminile in quella delle donne entrate nella resistenza, entrate nella formazioni combattenti partigiane cadute prigioniere dei nazifascisti ed avviate nei lager in Germania.
Da queste esperienze si possono avere delle indicazioni e degli approfondimenti per il presente; nel contempo si affronta un tema della guerra di liberazione, quello dell’Internamento femminile, che tra l’oblio generale dell’Internamento in genere è il più dimenticato e il più incompreso.
In  articolo per “Rassegna”, la rivista della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia  
(ANRP) ho fatto cenni all’Internamento Femminile, un internamento, quello in Germania, dopo l’8 settembre 1943 nel nostro Paese  ancora incide nella nostra coscienza  nazionale, anche se la percezione di questa tragedia è solo sotto l’ottica maschile. Questo si verifica sia riguardo agli oppressori ( stato hitleriano , singoli nazisti) sia riguardo alle azioni ed alle reazioni delle vittime dell’internamento.
Queste dinamiche sono state sempre presentate e studiate come se l’internamento interessasse solo gli uomini, relegando l’internamento a cui furono soggette le donne a profili marginali, quasi insignificanti, in una visione subalterna, nel substrato, forse anche inconscio, che la guerra e le sue conseguenze sono “cose da uomini”. In una proiezione abbastanza reale, questo approccio si ha per le situazioni di impiego del nostro personale femminile. Tutto è pensato in un ottica maschile, quasi che chi non è maschio non è ammesso. Ora difficile fare degli scenari in cui nostro personale femminile sia caduto prigioniero in mano “avversaria” e questa non è la rivista più indicata per affrondire questi argomenti. Andiamo quindi in parafrasi su quanto scritto per l’ANRP e vediamo a che cosa sono andati incontro le donne, quelle che sono entrate nelle formazioni combattenti, per avere un punto di riferimento e avere quindi degli orientamenti. Nel contempo, come detto, portiamo all’attenzione un apsetto della nostra storia caduto nell’oblio

            Nello stato nazista, si scriveva nella’articilo della ANRP, la concezione ideologia era stata approntata primariamente e forse esclusivamente da uomini, facendo appello alla durezza, alla spietatezza, alla mortificazione e negazione di   tutto quello che poteva anche apparire dolce, tenero e comprensivo. L’ideologia nazista quindi portava una profonda avversione per il sesso femminile, dividendo le donne in due parti: quelle appartenente ad una categoria superiore, e perciò in chiave di purezza della razza, di “alto valore riproduttivo” e quelle di categoria inferiore, a cui assegnavano in quanto tali, un “valore riproduttivo nullo”, ricorrendo in modo sistematico alla sterilizzazione, all’aborto, e poi anche alla loro soppressione. 
Appartenenti alla seconda categoria, coloro che erano internate, per motivi politici, religiosi, etnici ecc.,  in un lager avevano già contro tutto un apparato ideologico, a prescindere se ebrea, resistente, oppositrice, o ogni altra categoria, che infieriva contro la sua identità femminile. Un



( concetto: si cade in mano a un apparato fortemente maschilista, duro, che non è tenero che non ammette debolezze)
Non è nazista, ma militarista, quindi di molto gradini piùin basso in questa scala ma sempre difficiel






Appena entrata nel lager si attacca il suo aspetto esteriore, levandogli i vestiti, ogni oggetto personale, dandogli indumenti standardizzati ( i camicioni a righe), rasando le parti intime, tagliando a zero i capelli, eliminando la possibilità di pulizia e cura di se; si calpestano costumi radicati, come i denudamenti e le attese, nude, al chiuso e all’aperto, spesso sotto gli occhi di tutti.



Il trattamento che le donne ricevano nel lager e quindi più pesante di quello inflitto all’uomo. L’atmosfera è  impegnata perennemente di paura, di umiliazioni, di privazioni, di fatiche che in breve incidono  nella sfera prima psichica poi biologica.Prima manifestazione di questo è la scomparsa del ciclo mestruale. Nel prosieguo si straziano i valori della maternità e del materno: i figli vengono separati dalle madri oppure le madri li vedono morire nelle camere a gasa; le donne incinte al loro arrivo abortiscono o vengo fatte abortire oppure i neonati appena  nati non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza o addirittura uccisi. I bambini vagano per il campo ma è noto a tutti che hanno pochissime possibilità di sopravvivenza.

Tutto questo non è ipotizzabile per una pesperinza di prigionia di guerra. Non vi sono le premesse, ma occorre prendere in esame che



A questa esperienza la donna in quanto tale vi arriva impreparata, non come i loro coetanei maschili che gli obblighi militari di leva e l’addestramento alla guerra hanno in parte preparato. Per le resistenti, per coloro che salgono in montagna o entrano nei nuclei cittadini, pur nella consapevolezza di correre un rischio anche serio, non si arriva mai a preventire quella che poi potrebbe essere l’esperinza di un lager tedesco. Le stesse donne ebree, che la storia e la tradizione e la luna sequenza di persecuzioni, arrivano impreparate alla esperienza del lager.

Ecco il motivo chiave di queste note: a queste esperienze occorre arrivare preparate. La divisa non è solo luccichio di bottoni, di stelle strisce gradi e altro. Quando si dice che è pesante vuol dire che questo……………addestraemto alle situazioni difficili




Le forme di resistenza e le strategie di sopravvivenza opposte al trattamento nel Lager, sono varie, la più diffusa è la speranza ed il sogno del ritorno, ovvero ad immaginare un immediato futuro in cui la liberazione rappresenta un momento culminate, fondamentale. Proprio questa strategia che per molte significò la volontà e la voglia di sopravvivere all’orrore del presente, si rilevo poi un terribile dramma.
La liberazione fa si che il popolo delle internate e delle deportate almeno visivamente scompare, ma rimangono le profonde ferite.
Nel momento in cui le Internate provano a raccontare a relazionarsi emergono tutte le difficoltà e tutte le incomprensioni di chi non ha passato l’esperienza del lager.

Il problema del sesso. Nell’Internmento in germania questo è uno dei punti più delicati e difficili da trattare
 Le donne, per lo più giovani, perché le più anziane non potevano sopravvivere e quindi non sono tornate, erano state catturate da uomini ed internate da uomini: il corto circuito tra internamento femminile e stupro è quasi inevitabile; non si vuole nemmeno approfondire se vi furono cedimenti o complicità nella violenza, e sutto rimane a livello di sospetti, sottintesi e tutta la vicenda sprofond in forme di disconoscimento. Quando poi usciranno libri come “la case delle bambole”  e film amche di un ceto valore, come il “portiere di notte” l’eterno dolore femminile del lager sarà esposto ad una nuova esacerbazione. Mentre per l’uomo uscito dal lager incide il pensiero “perché proprio io sono sopravissuto” e non l’amico, il conoscente o la persona sconosciuta, alimentando sensi di colpa infinti, nella donna oltre a questo, impalpabile aleggia la mai detta accusa “ tu sei sopravissuta perché sei andata a letto con un tedesco”, alimentando ancora più devastanti sensi di colpa e sposso impossibilitando una ricostruzione psichica e morale.




Perche sei andata soldato: una scelta come un'altra e quindi non vi sono le accuse date alle Internate che agirono solo su base strettamten volontaria
A questa incomprensione generalizzate volta all’Internamento[1] si deve le particolari resistenze che le Internate hanno affrontato per relazionarsi con chi è rimasto. Prime fra tutte le Internate per motivi politici. Le accuse nei loro confronti sono pesanti e contraddittorie: da una parte, anche se velatamente, si rimprovera loro di essersi andate a cercare i guai, interessandosi di guerra e politica, cose che da sempre sono di stretta pertinenza degli uomini. Se la scelta di andare a combattere e di opporsi è fatta al seguito di un uomo,sia esso padre, fratello, marito, amante, amico si rimprovera loro di non essere state autonome nella scelta; se invece si è scelto autonomamente di opporsi ai tedeschi, subendo il lager, allora si rimprovera di aver lasciato ed abbandonato i compiti femminili.  
Il reinserimento nella vita lasciata, al ritorno, il momento tanto sognato, è spesso fonte diu ulteriori traumi: chi è stato deportato, internato al ritorno non riconosce i luoghi lasciati, le persone, sia materialemtne che psicologicamente; chi vede ritornare il suo caro non lo riconosce per come si presenta nel fisico e nella mente, troppo devastante è stata l’esperienza. Da qui quel lento avvicinarsi l’un l’altro che solo a prezzo di ulteriori sacrifici darà risultati.
Molte altre le paure e le incomprensioni del ritorno, da quella di sapere se si potevano meno avere figli e se si, se questi erano sani, nella riserva mentale di essere state inconsapevolmente soggette attraverso la nutrizione a sistemi di sterilizzazione, a quella che l’impronta di queste piaghe si trasmette alle nuove generazioni, soprattutto per via inconscia ed ad altre ancora.








Questa esperienza non può rimanere, come tutta l’esperienza del lager in Germania, confinata alla generazione che l’ha subita. Anche l’esperienza dell’Internamento al femminile deve essere posta alla attenzione delle generazioni presenti. E posta oltre che come memoria e di rispetto per chi ha subito tanto male, come elemento per guidare ed affrontare il presente, per prevenire eper correggere i mali che la nostra sogeta genera a piè sospinto. L’esperienza del lagere al femminile in Germana deve essere più approfondita nel filone di comprendere come un essere “debole” inteso non come “essere donna”, o “femminile” o debolezza morale, ma debolezza di chi, come scrive Anna Maria Buzzone, è debole di fronte alla brutalità dei perdenti è da sempre perdente e proprio per questo, nel fallimento uomano di tutti i programmi che poggiano sulla potenza, ha in sé risorse non ancora utilizzate di liberazione e di salvezza.


[1] Sulla complessa questione della realtà dei bordelli in molti lager, della possibilità che molte internate abbiamo avuto traumi sessuali, e della conseguente voglia di rappresentazioni per lo più falsanti di questi fenomeni, e soprattutto delle fantasia che il tema scatena anche in certe componenti della cinematografia e della comunicazione in genere, vds:

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