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sabato 16 gennaio 2021

Maria Luisa Suprani. Note sulla Grande Guerra

 

L’utilità storica della testimonianza del generale Eugenio De Rossi

 

Nel corso del primo sbalzo offensivo della Grande Guerra, discese le falde del Monte Nero, i primi di giugno Alpini e Bersaglieri si scontrarono con la difesa austroungarica posta a presidiare la conca di Tolmino. Si mirava ad impedire i rifornimenti nemici dai quali la testa di ponte sulla destra dell’Isonzo (colli di Santa Maria e di Santa Lucia) era alimentata. «Una crudele ferita, riportata nel combattimento del 2 giugno 1915 al Merzly (Monte Nero), mi ha paralizzato dalla cintola in giù, confinandomi in una poltrona. A distogliere il pensiero dal mio stato ed a lasciare un ricordo ai miei cari, ho dettato questo racconto della mia vita». Il modo lapidario con cui il generale Eugenio De Rossi introduce La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, pubblicato nel 1927, non lascia affatto presagire il registro del suo racconto che saprà rivelarsi  avvincente.

Nato nel 1863, di famiglia piemontese di militari di antica data, attraverso il susseguirsi delle tappe della sua carriera, il generale De Rossi offre uno spaccato di efficacia notevole circa il percorso compiuto dall’Esercito postunitario, assai prezioso per comprendere i prodromi e lo svolgimento della guerra italiana. De Rossi ripercorre la (sua) storia attraverso la narrazione di una serie di aneddoti che sanno restituire, con levità di tratto e profondità di pensiero, pressoché l’intera gamma dell’esperienza umana. Nel corso del racconto si stagliano, definite dalla prospettiva che solo lo sguardo di un contemporaneo può cogliere, le figure destinate a divenire celebri, restituite in un’immediatezza rivelatrice di alcuni loro tratti peculiari[1].

 La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra illumina la complessità della cultura militare eterogenea del Paese fra Otto e Novecento che uscirà trasformata dall’esperienza bellica: già negli anni antecedenti al conflitto, in nuce, si possono scorgere i presupposti dei momenti più gloriosi e dei fatti gravi che comporteranno la necessità di una riflessione radicale.

Una massima, che peraltro non è di De Rossi ma da lui fatta propria in virtù dell’efficacia dimostrata (non solo in ambiente militare), rimane memorabile: «“Sapere, saper fare, saper vivere, è il segreto per arrivare!” mi diceva. Ed è perfettamente vero»[2].

(Maria Luisa Suprani)

[1] […] mi avviavo a casa […] quando, in via Nizza, scorsi un giornalaio percuotere in modo bestiale un suo figlioletto decenne. Le grida del ragazzo salivano al cielo, la gente guardava ma non interveniva, ed allora mi avanzai per far moderare l’infuriato genitore, il qual si voltò subito verso di me come una vipera. Passava in quel momento un tranvai a cavalli, ed un signore nero vestito ne balzò fuori, venne a porsi al mio fianco e strappò il ragazzo dalle mani del padre. Una guardia civica si intromise, la cosa si chiarì, il fanciullo aveva sottratto denaro dal banco ed era recidivo. Il signore in lutto dall’aspetto distinto e severo mi spiegò di non poter soffrire maltrattamenti a bambini e perciò essere accorso. Si dichiarò lieto di aver trovato un camerata animato da ugual sentimento, e datami la sua carta di visita, saltò sopra un altro tranvai che passava e disparve. Era il tenente colonnello di Stato Maggiore conte Luigi Cadorna (E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 79).

[2] Ivi, p. 52.

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