L’utilità
storica della testimonianza del generale Eugenio De Rossi
Nel corso del primo sbalzo offensivo della Grande
Guerra, discese le falde del Monte Nero, i primi di giugno Alpini e Bersaglieri
si scontrarono con la difesa austroungarica posta a presidiare la conca di
Tolmino. Si mirava ad impedire i rifornimenti nemici dai quali la testa di
ponte sulla destra dell’Isonzo (colli di Santa Maria e di Santa Lucia) era
alimentata. «Una crudele ferita, riportata nel
combattimento del 2 giugno 1915 al Merzly (Monte Nero), mi ha paralizzato dalla
cintola in giù, confinandomi in una poltrona. A distogliere il pensiero dal mio
stato ed a lasciare un ricordo ai miei cari, ho dettato questo racconto della mia
vita». Il modo lapidario con cui il generale Eugenio De Rossi introduce
La vita di un Ufficiale italiano sino
alla guerra, pubblicato nel 1927, non lascia affatto presagire il registro
del suo racconto che saprà rivelarsi
avvincente.
Nato nel 1863, di famiglia piemontese di
militari di antica data, attraverso il susseguirsi delle tappe della sua
carriera, il generale De Rossi offre uno spaccato di efficacia notevole circa
il percorso compiuto dall’Esercito postunitario, assai prezioso per comprendere
i prodromi e lo svolgimento della guerra italiana. De Rossi ripercorre la (sua)
storia attraverso la narrazione di una serie di aneddoti che sanno restituire,
con levità di tratto e profondità di pensiero, pressoché l’intera gamma dell’esperienza
umana. Nel corso del racconto si stagliano, definite dalla prospettiva che solo
lo sguardo di un contemporaneo può cogliere, le figure destinate a divenire celebri,
restituite in un’immediatezza rivelatrice di alcuni loro tratti peculiari[1].
La vita
di un Ufficiale italiano sino alla guerra illumina la complessità della
cultura militare eterogenea del Paese fra Otto e Novecento che uscirà
trasformata dall’esperienza bellica: già negli anni antecedenti al conflitto, in nuce, si possono scorgere i
presupposti dei momenti più gloriosi e dei fatti gravi che comporteranno la
necessità di una riflessione radicale.
Una massima, che peraltro non è di De
Rossi ma da lui fatta propria in virtù dell’efficacia dimostrata (non solo in
ambiente militare), rimane memorabile: «“Sapere, saper fare, saper vivere, è il
segreto per arrivare!” mi diceva. Ed è perfettamente vero»[2].
[1]
[…]
mi avviavo a casa […] quando, in via Nizza, scorsi un giornalaio percuotere in
modo bestiale un suo figlioletto decenne. Le grida del ragazzo salivano al
cielo, la gente guardava ma non interveniva, ed allora mi avanzai per far
moderare l’infuriato genitore, il qual si voltò subito verso di me come una
vipera. Passava in quel momento un tranvai a cavalli, ed un signore nero
vestito ne balzò fuori, venne a porsi al mio fianco e strappò il ragazzo dalle
mani del padre. Una guardia civica si intromise, la cosa si chiarì, il
fanciullo aveva sottratto denaro dal banco ed era recidivo. Il signore in lutto
dall’aspetto distinto e severo mi spiegò di non poter soffrire maltrattamenti a
bambini e perciò essere accorso. Si dichiarò lieto di aver trovato un camerata
animato da ugual sentimento, e datami la sua carta di visita, saltò sopra un altro
tranvai che passava e disparve. Era il tenente colonnello di Stato Maggiore
conte Luigi Cadorna (E. De Rossi, La vita di
un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 79).
[2] Ivi, p.
52.
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