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mercoledì 1 aprile 2020

Epidemie italiane: il colera “politico”


DIBATTITI
 A margine della crisi in essere
 note storiche

Alessia Biasiolo

L’epidemia di colera che ricorda Pellegrino Artusi in un suo aneddoto, colpì l’Italia a ondate successive nel 1854 e nel 1855.
Nel 1854 aveva colpito gli Stati sardi, parte della Lombardia e il Sud, mentre l’anno seguente colpirà tutta la penisola causando migliaia di morti.
Appena ci si rese conto di avere anche in Sardegna un caso di malattia, si formò una commissione medica che aveva lo scopo di coordinare le operazioni di soccorso e di studiare quel nuovo fenomeno patologico. L’eccessiva disponibilità ad ospitare in zone libere dall’infezione dei sassaresi immigrati, fece diffondere l’epidemia, almeno così pensò la popolazione alla morte per colera di uno dei sassaresi ospiti.
Il morbo si diffuse con una rapidità impressionante. A Ozieri ci furono casi di caccia all’untore, come da manzoniana memoria. Subito il paese sardo colpito dall’epidemia venne cordonato per impedirne l’accesso e l’uscita, in modo da circoscrivere il danno. I negozi vennero chiusi, tranne le spezierie e un caffè, e venne vietato il consumo di cocomeri, cetrioli e meloni, oltre che di ortaggi in genere, perché erano stati individuati come i principali responsabili del veicolo del morbo; le case degli ammalati vennero trattate a calce, per disinfettarle. Vietati i salassi a chi era nella prima fase della malattia, come pure l’esposizione dei cadaveri in piazza prima del funerale; ogni settimana si doveva sezionare un cadavere, evidentemente per studiarne gli effetti della malattia stessa.
I più colpiti erano i poveri, come spesso accadde, e in fretta si diffuse di nuovo, come già nella ricorrenti epidemie precedenti, il sospetto di veleni diffusi a scopo politico.
La stessa medicina ufficiale era divisa tra contagionisti e anticontagionisti, in aperta e aspra polemica tra loro, con tanto di battaglie tra le colonne di vari opuscoli medici e dando contraddittori consigli al governo in tema di misure da prendere per cercare di arginare il contagio.
Dalle colonne della “Gazzetta medica italiana”, ad esempio, Gaetano Strambio diffondeva le sue idee contagiste, contestate da Cavour che sollecitò il deputato e medico Angelo Bo, a controbattere l’assurda credenza della propagazione della malattia con un contagio ad arte.
In particolar modo, era credenza comune nella povera gente che fosse proprio il governo a volerla ammazzare tutta, attraverso i medici che avrebbero dovuto curarla.
Addirittura i deputati comunali o i parroci altalenavano nelle credenze, combattuti all’idea che nelle teorie complottiste ci fosse qualcosa di vero. Spesso scoppiavano disordini, perché si temeva l’uso politico di una malattia diffusa appunto dai politici e le persone, oltre ad organizzare le rivolte, rifiutavano l’ospedalizzazione per timore di essere ammazzate in ospedale. Soltanto lo spaventoso numero dei morti, salito ad oltre ventimila nella città di Torino ad esempio, farà sedare gli animi e li rese più disponibili ad ascoltare le parole del sindaco.
In Sardegna, il colera fece scattare una forte opposizione antipiemontese, data l’unione delle due regioni in un unico Regno.
Nella “colta e civilissima” Firenze, come veniva definita al tempo, il caso di colera tra i carcerati fece diffidare dei pubblici poteri.
Al Sud, si pensava male dei Piemontesi, alludendo alla guerra di Crimea da dove molti soldati erano in effetti tornati ammalati, ma si pensava anche a un “veleno” sparso tra la popolazione dalle autorità napoletane per sfoltirla e intimorire i sopravvissuti, memori della pesante azione antiliberale messa in atto dopo i moti del 1848 che avevano portato con sé fucilazioni e arresti.
Anche a livello politico si vigilava affinché non ci fosse utilizzo del colera come arma contro il governo, o di una parte politica contro l’altra.
Nel 1856, una lettera anonima accusava un deputato di avere avvelenato l’acqua con il verderame e di avere attribuito a Ferdinando II il colera-veleno. Altri avevano diffuso la voce che un fornaio, a Silvi, aveva avvelenato il pane, sperando così di causare un’insurrezione e di mettere a sacco il forno.
Alcuni gridavano all’avvelenamento delle spighe di grano con fosfato di fiammiferi.
Nei territori di Chieti e Pescara, venne fatta comminare una buona dose di legnate a chi propagava notizie sediziose sul morbo. Fu subito chiaro che dove le misure repressive adottate erano più drastiche, il popolo rispettava maggiormente le indicazioni date e i disordini furono nulli, per evitare che si ripetessero le sommosse viste nel 1837.
La repressione era utile anche contro gli allarmisti, che spesso erano donne popolane, perché il panico diventava pericoloso tanto quanto la malattia.
Un povero girovago di Brindisi, Francesco D’Alessio, ad esempio, entrato da un pizzicagnolo, venne visto toccare dei ceci arrostiti, forse perché ne avrebbe voluto per mangiare; poi venne visto entrare in un’osteria dove da solo si servì di un bicchiere di vino al banco. La voce circolò subito e venne accusato di avvelenamento: rincorso dalla folla inferocita, trovò rifugio in chiesa. Il piglio divertito del giudice istruttore fa comprendere la tragicommedia che denota la paura diffusa in tempi drammatici.
Lo smarrimento dinanzi all’impossibilità di azioni contro la malattia, faceva aumentare il timor panico, l’odio verso qualcuno, il pregiudizio e a volte si innestava sulla criminalità usuale. Spesso si rispondeva al contagio dicendo di stare in casa, a finestre tappate, soprattutto laddove si pensava che nubi di aglio bruciato stessero vagando portando il colera.
Si ebbe poi un colera nazionalpopolare nel 1865-67 quando si ribadisce dalle colonne del saggio di Michele Lessona “Volere è potere” che non era vero che il colera fosse inviato al popolo dal governo liberale, ma di certo il detto governo aveva le sue colpe, dal momento che i liberali non si erano fatti scrupoli di mantenere viva nel popolo la credenza degli untori politici se faceva comodo.
Comparso nelle Marche, poi in Campania e Puglia nel 1865, diffusosi in alcune zone della Sicilia nel 1866, il morbo dilagò ampiamente nel 1867 in Lombardia, Puglia, Calabria e Sicilia, diffondendo ancora una volta il timore verso ospedali e medici che non solo erano centro di diffusione del contagio, ma accusati di farlo apposta, come emissari forse del governo oppure di chissà chi. Ignazio Cantù scrisse che alle superstizioni si dovevano gran parte dei mali dell’umanità.
Gaetano Strambio notò con orrore che, ancora, si ripetevano i deliri sull’ampollino dei medici, con rapimento o occultamento dei malati per non lasciarli in mano ai sanitari: secondo Strambio, il problema della mancanza di autorità, in un periodo di contrasto tra Stato e Chiesa, lasciava ampio spazio a chi predicava che erano i castighi di Dio a impossessarsi dell’umanità italiana, per punirla delle empietà liberali, mentre lui stesso ipotizzava che fossero proprio dei maneggi dei clericali più conservatori a provocare distruzione e morte.
Contro medici e presunti avvelenatori insorsero a Castellammare e Torre Annunziata, ad esempio, mentre ad Amalfi ebbero la peggio degli uomini di Positano perché galantuomini, pertanto sospettati di diffondere il morbo tra i poveri.
Interessante notare come, a Palermo, si sostenesse con una certa logica per chi voleva pescare nel torbido dell’untore politico, che “se era veleno quando c’era Ferdinando non avrà cessato di esserlo perché c’è Vittorio Emanuele”. In Sicilia, nel 1860 Giuseppe Garibaldi aveva promesso la leva militare al posto del colera, ma ora era evidente che non fosse cambiato molto, quindi la colpa doveva essere del governo per forza.
Perciò venne organizzata, da capipopolo già impegnati nei tumulti del 1848 e del 1860, una rivolta popolare, causata dalla peggiorata condizione economica, la malattia dilagante, la disoccupazione, la liquidazione dell’asse ecclesiastico.
Tra il 16 e il 22 settembre 1866, migliaia di persone calarono dalle zone circostanti e arrivarono a Palermo dove misero a sacco gli uffici pubblici, impadronendosi della città. I Borboni avevano favorito la rivolta, soffiando sul pericoloso fuoco della disperazione, ottenendo un pesantissimo intervento governativo che acuì l’odio nei confronti del Piemonte che governava dalla capitale Firenze.
Le truppe al comando di Cadorna sbarcarono sull’isola diffondendo ancor più il colera. Le fucilazioni e gli arresti si moltiplicarono, con tribunali militari e rastrellamenti. Si contarono migliaia di morti, con la reazione popolare che non si fece attendere, soprattutto per l’aumento della pressione fiscale. Il colera poteva solo essere italiano, nemico, contro un’isola che, quindi, tanto italiana in quel momento di novella unità nazionale non si sentiva. Ogni azione del governo, anche la distribuzione di viveri e medicinali, non venne accettata, perché sospettata di essere soltanto un altro metodo per diffondere il morbo ed eliminare i popolani locali.
Nello stesso 1867, in Calabria i reazionari incolpavano del colera la scomunica da parte di Pio IX. Per fronteggiare il morbo, il popolo beveva litri di olio d’oliva e cercava di linciare gli untori. Anche in questo caso, borbonici e clericali alimentarono le credenze popolari sperando di poterne avere la meglio e di ripristinare lo status politico precedente.
Il prefetto di Cosenza addita anche i cittadini agiati ed educati, cioè colti, di credere nella diffusione del colera come veleno; oltretutto in Calabria era diffusa l’idea di una setta responsabile dei tumulti e in tal senso si organizzarono anche delle indagini. La psicosi dei veleni e degli untori, insomma, colpiva non solo l’immaginario collettivo della plebe, ma tutta la società civile.
Purtroppo un’epidemia di colera colpisce l’Italia anche nel 1884-85, ma il Paese risponde in maniera meno impreparata. Infatti, nel 1883 Koch ha scoperto la causa del morbo, un vibrione, che si debella già portando a ebollizione l’acqua.
Il governo, guidato da Depretis, mette in atto una azione efficace, con una strategia precisa e coerente: l’urto contro la malattia è la scrupolosa igiene personale, dei locali, l’isolamento, la disinfezione, la distruzione degli oggetti infetti.
Malgrado l’attacco delle opposizioni, la vigilanza in tutta Italia porta sicuri risultati, ma spiegabili anche con l’aumentata istruzione, una buona profilassi e buoni progressi economici. Tuttavia, l’idea degli avvelenamenti non passa: si crede ancora che gli ampollini dei medici, le polverine, le caraffine per contenere il colera, fossero un’azione politica o di qualcuno contro il popolo.
Il “Corriere della Sera” titola “Cose da Medioevo”, anche quando si credeva che l’Italia fosse cresciuta abbandonando le superstizioni. Addirittura si assicurava che gli avvelenatori, medici e farmacisti, venissero pagati 25 lire al giorno.
Sono passati anni, l’istruzione è migliorata in Italia, ma le superstizioni riappaiono prepotenti quando la situazione, soprattutto sanitaria, porta al panico collettivo.
Se infatti i Borboni dovevano diffondere il colera perché le bocche da sfamare erano troppe, erano i carabinieri a gettare in giro il morbo sotto Umberto. E non si fanno attendere anche le polemiche dalle colonne dei giornali, dal momento che il Sud italiano, Palermo in testa, era stato dipinto come in preda all’anarchia e alla barbarie, pertanto i giornali palermitani insorsero rispondendo per le rime.
Francesco Crispi, dalla sua, lamentava che il clero non aveva utilizzato la sua potenze spirituale e parzialmente temporale per convincere le persone che non c’erano veleni e untori. In effetti non era vero: il vescovo di Palermo e di Catania, ad esempio, avevano scritto ai preti di predicare che il colera aveva un’origine naturale, pertanto non solo doveva essere accettato come una calamità naturale, ma dovevano essere accettati anche gli aiuti dalle autorità, che ancora una volta al Sud non venivano considerati positivi.
C’era chi pensava addirittura, allora, che i preti avvelenassero l’ostia della comunione, proprio perché stavano con il governo.
Un buon curato, allora, doveva citare la Bibbia, dove era chiara l’origine divina della peste; metteva in guardia di non lasciare le case per paura degli untori, perché i ladri ne approfittavano ad arte per svaligiare le case e, inoltre, come poteva un prete stare dalla parte di un governo che non li amava affatto? In più, se già non ce n’era abbastanza, era chiaro che erano stati proprio i liberali ad inventare la storia del veleno in odio ai Borboni: una verità che, rivelata in quel momento, non portò comunque a convincimenti seri.
All’idea dell’avvelenamento politico si rifaranno in Italia anche nel 1910-11, in occasione di un’altra epidemia che riporterà alla parola Medioevo per indicare l’arretratezza di pensiero tornata a credenze popolari che si pensavano superate, mentre si ricorrerà ancora all’idea di untori o di avvelenatori nel caso dell’epidemia di spagnola che colpirà l’Europa tra la fine della prima guerra mondiale e i primi mesi di pace.
Di quell’epidemia non abbiamo molte notizie scritte, dato che la censura interverrà a man bassa per fare sparire ogni notizia che poteva demoralizzare il popolo, dal momento che i primi segni del dilagare dal morbo si ebbero nei momenti decisivi per il conflitto.
Ci sono anche in quell’occasione dei provvedimenti dei prefetti che vietano i funerali, ma anche di portare il viatico e di suonare le campane in segno di qualcuno agonizzante, proprio per non dare nelle persone l’idea del vero impatto della malattia.
Ancora una volta il governo confida nei parroci per divulgare idee di positività e negare che fosse in atto un’epidemia e lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, capo del governo, tuona contro chi metteva in giro voci su una malattia terribile in circolazione.
Il nemico imputato di diffondere una malattia, tra le superstizioni circolanti sommessamente, era il tedesco, ma anche il governo di Roma che a molte masse era ancora inviso.
Finita la guerra, si rimarcava il concetto che il “regalo” dell’influenza che mieteva migliaia di vittime fosse stato lasciato dai tedeschi.
Proprio quando un amico di Pellegrino Artusi, Olindo Guerrini, nome d’arte Lorenzo Stecchetti, pubblica il suo libro “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”, manualetto molto diffuso, anche se non ebbe la fortuna del libro dell’amico. In quel momento di penuria di cibo e soldi, infatti, avere un ricettario che nobilitava la casalinga abitudine di non buttare via niente e di provare ad utilizzarlo al meglio, dava un ché di moderno e alla moda.
Un modo come un altro per cercare di risollevarsi da una terribile guerra.

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