ARCHIVIO
Sergio Benedetto
Sabetta
Il giorno dell’avanzata bisognava
passare su tavole crollanti a cui si dava per eufemismo il nome di ponti,
passaggi obbligati dove si varcava lenti e pochi alla volta, anche quando si
riusciva a mettere piede sulla sponda opposta si rimaneva con la paura che
l’impresa non riuscisse a chi seguiva, perché se non venivano subito i rincalzi
e molti si rimaneva in trappola a correre qua e là senza scampo.
Per settimane si osservava lo
scorrere delle acque giù dai monti al fine di non sconvolgere i calcoli del
Genio, il 16 ottobre del 1918 giorno previsto per l’inizio della battaglia di
Vittorio Veneto il fiume era in piena, così che dovette essere ritardata al 24
ottobre sui monti e solo il 26 ottobre
sul fiume.
Il 30 ottobre a Praga la folla in
piazza acclamava la repubblica mentre sul Piave continuava la guerra, sebbene
con un Paese in subbuglio dietro al fronte l’abitudine al comando, lo spirito
militare, il senso d’onore, le notizie frammentarie, l’abitudine a fare il
proprio dovere, spingono a continuare il combattimento.
Solo le truppe di rincalzo vennero
meno e abbandonarono il fronte ma non le truppe in prima linea che continuarono
a combattere fino all’armistizio del 4 novembre, continuando a resistere e a ricevere
gli ordini inviati dal comando.
Già da tre giorni la Quarta Armata si
dissanguava sul Monte Grappa, quando la sera del 26 ottobre i primi reparti
alpini e francesi passavano il Piave davanti a Valdobbiadene.
La mattina del 27 su due soli ponti
oltre il Piave in piena l’Ottava Armata costituiva una testa di ponte sulla
sinistra del Piave sulla piana di Sermaglia ma l’artiglieria nemica dal San
Salvatore distrugge i ponti fermando ogni ulteriore tentativo di passaggio
mentre le fanterie austriache cercano di ricacciare nel fiume i reparti che lo
avevano passato.
La brigata Cuneo e tutta la 57°
divisione resistono, riuscendo addirittura ad avanzare un poco, tuttavia la
prima divisione d’assalto spintasi audacemente fin contro Falzè viene ad urtare
contro forze soverchianti, decimata è costretta a ripiegare, muoiono quasi
tutti gli ufficiali, mentre i serventi delle batterie da montagna cadono uccisi
sui pezzi che difendono all’arma bianca.
Tutta la notte seguente si prodigano
i pontieri del Genio, sotto il fuoco dell’artiglieria, contro la piena del
Piave, per gettare nuovi ponti che tuttavia vengono portati via dalla fiumana.
Allora più a sud sui ponti che dalle
Grave di Papadopoli, già conquistate il 24, la Decima Armata lanciava oltre il
fiume tutte le riserve, un intero corpo d’armata, con l’ordine di risalire la
sinistra del Piave e prendere sul tergo i nemici che premono sui reparti
isolati del 27° e 22° corpo.
Questa manovra risulta essere la
chiave della vittoria, mentre dal Montello un tiro preciso di artiglierie
protegge il passaggio ai reparti dell’Ottava Armata, la minaccia alle spalle
dell’avversario lo isola dalla tenacissima Isonzo
Armee creando un avvilimento nello stato d’animo degli austriaci.
L’Isonzo
Armee si batte ancora, ma a settentrione le truppe austriache iniziavano un
ripiegamento che progressivamente si trasformava in una rapida fuga, il 29 0ttobre l’8° corpo d’armata italiano
occupa Susegana, mentre il 29 ottobre il 18° corpo d’armata travolge le difese
di Conegliano.
La sera del 29 ottobre le truppe
celeri dell’8° corpo d’armata, i lancieri di Firenze e i bersaglieri
ciclisti entrano in Vittorio Veneto, la
mattina dopo l’8° armata forza la stretta di Serravalle.
Piombano giù dal Grappa i battaglioni
decimati dei Salaroli e del Valderoa
oltrepassando Feltre, respingendo i nemici su per la Val Cismon , ancora
qualche sanguinoso scontro contro le Melette in Val d’Assa, a Serravalle e a
Mori, poi anche qui l’avanzata si trasforma in un inseguimento, infine la
Settima Armata scende dal Tonale e dai ghiacciai giù per la Val Vermiglio
prendendo alle spalle con mossa a tenaglia 300.000 nemici.
Già il 30 ottobre la rotta nemica è
totale e i soldati sentono che la guerra sta finendo, ma l’ordine del Comando
Supremo è di avanzare il più possibile, nonostante le eventuali perdite, sia
sui monti che sul piano prima che scoccasse l’ora dell’armistizio, che tutti
conoscevano con certezza.
Un quarto d’ora prima che finisse la
guerra il capitano comandante il quarto squadrone dei cavalleggeri di Aquila
guardò l’ora al polso e disse ai suoi uomini che bisognava caricare e morire
per la Patria. I suoi cavalieri caricarono il nemico come se si fosse
all’inizio della guerra, contro mitragliatrici ben appostate, caricarono su un vialone liscio venendo falciati, quelli
che giunsero sulle armi nemiche vi
piombarono sopra feriti o morti nello slancio, fu l’ultimo sanguinoso
combattimento della guerra. Il luogo si chiama Paradiso.
Dalle rive del Tagliamento venivano
insieme con i bersaglieri della 23° divisione, che aveva l’ordine di “spingersi avanti quanto più fosse possibile
con marcia celere e ardita”, alle
ore 13 dello stesso giorno 4 novembre in una gara d’audacia i bersaglieri
dell’ottavo reggimento e i cavalieri di Aquila e di Mantova prendevano
d’assalto il paese di Ariis, qui cadeva correndo incontro al nemico il
diciottenne sottotenente bersagliere Alberto Riva Villasanta.
Superato l’ostacolo e valicato alla
meglio il fiume Stella i cavalleggeri di Aquila galoppano in avanti, lo
squadrone d’avanguardia, il quarto, giungeva poco dopo alle due e mezza a
Paradiso.
“Siano
a Paradiso”, dice il Capitano a chi gli sta vicino, “Sarà questo il nostro Paradiso?
”, due giovanissimi ufficiali diciannovenni galoppano accanto a lui, fra
mezz’ora la guerra è finita, sorridono alle parole del capitano, spronano più
forte verso un crepitio vicino di pallottole.
Fuori del paese vi è uno stradone
drittissimo, fra platani gialli, attorno velata di nebbia la campagna bassa a
stoppie, a canne tagliata da fossi e da stagni, gli zoccoli affondano tuttavia
per andare avanti non c’è che la strada. Tuttavia questa è battuta dal fuoco
nemico e ai lati di essa a circa un chilometro dalle ultime case del paese
stanno appiattiti i ciclisti di Aquila e i mitraglieri di Mantova, senza più
munizioni, in agguato.
Trecento metri più avanti, dove il
vialone è tagliato dalla strada Castions-Muzzana, sono appostate sparando
ininterrottamente le mitragliatrici della retroguardia austriaca, una ventina,
che proteggono fino all’ultimo la ritirata della loro divisione.
“Fermatevi”,
gridano ai sopravvenuti i
cavalieri appiedati , “fermatevi,
andare avanti è una pazzia”.
“Quarto
squadrone di Aquila”, grida il Capitano, “dietro a me, al galoppo ! “.
Davanti ai compagni sbigottiti passa lo
squadrone al galoppo, i primi feriti sono disarcionati, poi la maggior parte
dei cavalli sono falciati dalle raffiche trascinando sotto di sé i cavalieri,
solo un esiguo manipolo giunge sulle armi nemiche, i sottotenenti Augusto
Piersanti romano e Achille Balsamo napoletano alla testa, qui l’ultima scarica
li abbatte, piombano a terra colpiti al viso, braccia protese in avanti, altri
due cavalleggeri muoiono accanto a loro.
Sono già le 14 e 55 gli austriaci non
travolti dalla carica sparano ancora qualche colpo sugli sbandati che galoppano
sui campi, poi subentra un grande silenzio sulla campagna nebbiosa, mentre si
sentono i gemiti dei feriti.
“Kaputt Kavallerie !” , grida una voce, “ Alles
gestorben ! “, risponde un’altra, le ultime raffiche di mitragliatrice si
susseguono.
Ma ecco sbucare dalla nebbia un
velivolo con due bandiere tricolori agganciate sulla carlinga, un continuo
ululare di sirene annuncia che sono le 15,00 , la guerra è finita.
Dalla parte nemica si sentono comandi
concitati, una tromba insistentemente chiama adunata nella retroguardia,
sbucano fuori dagli appostamenti i mitraglieri nemici, s’alzano in piedi
avvicinandosi allo scoperto.
( Da Paolo Monelli, Sette battaglie,
Fratelli Treves Editori, 1928 )
Nessun commento:
Posta un commento