DIBATTITI
Spesso si pensa alle rivoluzioni armate e a prese di posizione politica che permettono di cambiare l’umanità, il più delle volte in meglio, ma non sempre. Ci sono tuttavia alcuni aspetti della vita quotidiana che consentono alle persone di esprimersi in modo così incisivo da generare modi di pensare nuovi o che considerano aspetti non visitati prima, per molte ragioni.
Prendo in esame la canzone, la musica, come
argomento che si interseca ai conflitti bellici nel Secolo Breve, forse mai
come allora su vasta scala mondiale.
Il primo dopoguerra italiano fu caratterizzato da
un’ampia diffusione di canzoni e di ritmi, soprattutto in italiano, lingua che
si era rafforzata per il trasferimento di truppe di più regioni a vivere
insieme durante la Grande Guerra, fatto che aveva costretto ad utilizzare un
unico idioma per riuscire a capirsi, in un Paese in cui era ancora preponderante
l’utilizzo della lingua dialettale locale. Quindi nel 1918 abbiamo, grazie ad
Armando Gill, le canzoni “Come le rose”, “Cara piccina” e “Come pioveva”,
sentite ancora oggi. Non solo: i testi erano orecchiabili, facilmente
cantabili, e quindi memorizzabili, e il ritmo era semplice, ballabile. La
voglia di lasciarsi presto alle spalle gli orrori della guerra era così forte
che la diffusione dei balli era generalizzata, anche grazie ai nuovi arrivi
d’oltreoceano come il tango argentino, la rumba, il fox trot e il tanto amato
charleston, così chiamato perché diffuso tra gli scaricatori di porto di Charleston,
quando l’attività portuale era frenetica per i famosi anni ruggenti
statunitensi.
In quegli anni ebbe grande successo una bellissima
cantante nera, Josephine Baker, che portò in Europa, alle Folies Bergères di
Parigi, il ballo grazie a ritmi come “Lola” per l’Italia. Il charleston venne
subito amato dalle donne che per ballarlo dovevano liberarsi dalle imposizioni
come la lunghezza delle gonne: serviva avere le gambe libere, i capelli corti,
e muoversi senza gli stereotipati crismi del buoncostume. Gli abiti dovevano
essere lisci e semplici, senza il busto stretto e il guardinfante che ancora
rimaneva con le crinoline rigide del sottogonna. Molte volevano assomigliare
alla Baker, la “Venere nera”, e sentirsi importanti e libere come già durante
il lavoro durante la guerra, quando le donne avevano dovuto sostituire gli
uomini in tutto.
Se il charleston spopolava, non da meno sarà il blues
e il jazz, mentre si diffondevano le note di “Vipera” nel 1919 in Italia,
scritta da E. A. Mario già autore de “La canzone del Piave”, alla quale si
affiancherà “Creola”: la donna veniva dipinta come perfida, ammaliatrice, quasi
“sbagliata” per una morale ancora troppo ferrea e misogina.
Ecco poi la morale fascista con il titolo “Balocchi
e profumi”, sempre di E. A. Mario (Giovanni Gaeta) del 1929, che stigmatizzava
una donna che sceglieva se stessa prima e forse più della figlia; saranno
famose anche “Gastone” e “Tango delle capinere”.
Anche le satire di Ettore Petrolini contribuirono a
fare finire il periodo del varietà, come i tabarin, proprio dove la libertà
femminile era sotto gli occhi di tutti. Petrolini canterà “Nannì” nel 1926, poi
“Tanto pe’ cantà”, con il recupero dei dialetti. Sarà il momento anche per
“Quanto sei bella Roma”, “Chitarra romana” “Com’è bello fa’ l’amore quanno è
sera”.
Nel Ventennio si diffonderà anche l’automobile
Balilla alla quale verrà dedicata la canzone omonima; di lì a poco ecco “Porta
romana” e “Madunina” nel 1937, con Odoardo Spadaro che divenne famoso con “La
porti un bacione a Firenze” e “Il valzer della povera gente”.
In Romagna nel 1928
verrà fondata l’orchestra di Secondo Casadei che farà spopolare il ballo
liscio. Negli anni Trenta furono molte le orchestre che nacquero e si
diffusero, con nomi importanti quali Petralia, Barzizza, Angelini. Tra le mode
da balera, lo swing e sempre il jazz, malgrado l’opposizione fascista. La
canzone melodica italiana lasciava spazio infatti anche a ritmi più intensi e
sfrenati, con voglia di ballare e di infrangere la quotidianità.
Grande diffusione musicale
si ebbe anche grazie all’avvento della radio che cominciava le trasmissioni nel
gennaio 1925; nel 1927 nascerà l’EIAR e il numero di abbonati alla radio
crebbe, lentamente, ma in modo continuo. Molto spazio radiofonico era dato alla
musica, oltre che ai proclami, così come rivoluzionario sarà il cinema sonoro e
musicale che diede risalto alle molte case discografiche tra le quali Ricordi,
Fonit-Cetra e La Voce del Padrone.
Alcune canzoni
sentite nei film divennero famosissime, come “Parlami d’amore Mariù” di Bixio
del 1932, “Violino tzigano” del 1934, “Non ti scordar di me” del 1935, cantata
dal tenore Beniamino Gigli, “Vivere!” del 1937, “Mille lire al mese” del 1939.
A guerra già iniziata avranno grande successo “Voglio vivere così” e “Ma
l’amore no” cantata da Alida Valli nel 1942.
Registi e attori
cominciarono ad essere riconosciuti ed amati dal pubblico, come l’attore e
regista Vittorio De Sica e poi Macario, Totò, D’Apporto, Renato Rascel, accanto
a Isa Barzizza e Wanda Osiris, sempre per citare solo qualche esempio.
Lo sviluppo di
Cinecittà portò lavoro e sviluppo nel Lazio e a Roma soprattutto.
Carlo Buti alla
radio divenne famoso con la melodia all’italiana in un momento in cui le
canzoni più amate erano “Tango della gelosia”, “Spazzacamino”, “Bambina
innamorata”, “Non dimenticar le mie parole”, “Un’ora sola ti vorrei” del 1938 e
“Mamma” di Bixio, cantata da Beniamino Gigli.
Dopo il successo
dello swing di Natalino Otto, ecco quello di Alberto Rabagliati che lancerà “Ba
baciami piccina”.
Poi faceva impazzire
il Trio Lescano formato da tre sorelle olandesi, che renderanno eterna “Ma le
gambe” del 1938 e “Maramao perché sei morto” del 1939, tra le altre.
Venivano riproposti
motivetti già in voga come “Bombolo” del 1932, “Quel motivetto che mi piace
tanto” del 1934, con l’esaltazione della vita semplice e spensierata di cui
c’era sempre molto bisogno, soprattutto con l’inizio di un’altra guerra
mondiale. Divenne imperante anche il tema della campagna e della vita sana
rispetto a quella di città, con le fabbriche e l’inurbamento spesso selvaggio
che aveva fatto seguito all’enorme sviluppo italiano delle fabbriche. Infatti
ecco “Se vuoi godere la vita”, “Reginella campagnola”, “Evviva la torre di
Pisa”, “Rosamunda”, “Tulipan”, “C’è una chiesetta”.
Più di stampo
“politico” erano canzoni amate dal regime come “Giovinezza” che divenne inno
degli Arditi durante la Grande Guerra e poi canzone delle squadre fasciste,
fino ad essere adattata come inno ufficiale del Partito Nazionale Fascista da
Salvator Gotta che aveva limato le parole più bellicose, rendendola adatta a
rappresentare il partito e, soprattutto, ad essere trasmessa ogni giorno alla
radio.
Lo stesso dicasi per
“Balilla!” (in questo caso il bambino tra gli otto e i tredici anni) scritta da
Giuseppe Blanc nel 1923, o per canzoni più adatte alla guerra coloniale come la
campagna d’Etiopia, che vide motivi quasi solenni come “Sole che sorgi”, e
spiritosi come “O morettina”.
Grazie sempre a
Carlo Buti come interprete, divenne famosissima “Faccetta nera”, almeno fino a
quando non fu vietata all’insegna del “non mescolarsi” per la purezza della
razza. Il testo venne rimaneggiato, ma il ritmo era così piacevole che venne
inserita comunque negli inni fascisti. La volontà fascista di insistere sui
valori cari al regime, come la famiglia, la donna relegata al ruolo di moglie e
madre, i principi sacri del numero e del potere, venivano diffusi con testi
come “C’è una casetta piccina”, ma anche la popolarissima “Mamma” che si canta
ancora oggi.
Per quanto riguarda
le canzoni straniere, il fascismo impose di cambiare nomi ai cantanti in
tournée in Italia. Successe a Louis Armstrong che dovette farsi chiamare Luigi
Braccioforte nel 1935, mentre l’autarchia impose di limitare o annullare
canzoni straniere anche dai ritmi molto amati, come peraltro si era limitata la
messa in onda di canzoni straniere alla radio già dal 1928.
Anche i termini
delle canzoni vennero tradotti o riscritti, fino ad una sorta di pace nel 1937,
quando ricomparvero alcuni ritmi swing e blues e l’EIAR creò un quartetto jazz
che andava in onda tutte le sere alle 20.40 con grande successo. In quel
momento divenne celebre “Crapa pelada”, ma durò poco: già un anno dopo di nuovo
il jazz era ritornato da essere una musica negroide da censurare.
La censura fascista
non fu la prima in Italia, dal momento che un controllo dei testi era già in
essere, tanto che nel 1900 Luigi Illica e Giacomo Puccini dovettero mettere
mano all’aria “E lucevan le stelle” nella “Tosca” perché sciogliere i veli
intorno alle forme veniva visto come troppo sconcio rispetto a scioglierli alle
chiome.
A proposito di E. A.
Mario, la censura fascista suggerì di modificare alcuni versi de “La leggenda
del Piave” cassando parole come tradimento e frasi con l’onta di Caporetto,
visti come sminutivi della Patria. I carabinieri ricevettero l’elenco delle
canzoni contrarie all’ordine nazionale in quanto lesive dell’autorità, come “La
Marsigliese”, canti socialisti, anarchici, ballate su imprese sfortunate come
quella di Umberto Nobile.
Anche “Un’ora sola
ti vorrei” venne tenuta d’orecchio, perché si prestava a satire che non
concedevano di canticchiare l’orecchiabile motivetto. Lo stesso dicasi per
“Maramao perché sei morto?” del Trio Lescano, perché dopo la morte del gerarca
fascista Costanzo Ciano sembrava una presa in giro nei suoi confronti. Mario
Panzeri, autore del testo della canzone, venne convocato nel 1939 anche per
“Pippo non lo sa”, che pareva avere allusioni su Achille Starace in uniforme.
Venivano chiamate canzoni della fronda, spesso usate proprio come facile metodo
per sbeffeggiare il regime.
All’ingresso nella
seconda guerra mondiale per l’Italia venne vietato ballare in pubblico, i
locali notturni vennero chiusi e vietata la musica americana, non solo di
autori ebrei. Le canzoni permesse venivano attentamente valutate per cercare
ogni minimo cenno al Duce, al regime o in generale all’andamento della guerra
che potesse mettere in ridicolo le autorità o auspicarne la fine.
La stessa
famosissima “Lili Marleen” verrà censurata e poi bandita in Italia per la
strofa in cui il soldato pensa che sarebbe bello essere con lei anziché in
guerra, frase che demotivava la truppa, secondo gli ordini.
La canzone divenne
importante vessillo anche durante il terribile momento della guerra civile, con
canti resistenziali notissimi come “Fischia il vento” e poi “Bella ciao”.
“Fischia il vento” venne scritta nel 1943 da Felice Cascione che venne ucciso
dai nazifascisti tre settimane dopo l’esordio del suo lavoro, tanto che il
gruppo partigiano prese il suo nome e in breve la canzone divenne l’inno dei
gruppi partigiani garibaldini; in quel gruppo andò a militare Italo Calvino con
il nome di battaglia Santiago.
La
censura non si concluse con il Ventennio, comunque. Negli anni Cinquanta, troviamo
censurata nelle radio “La pansé” cantata da Renato Carosone, che tuttavia si
poté diffondere grazie ai jukebox. I controlli allora divennero attenti anche
nelle balere, dove comunque la canzone era vietata, così come altre, pena multe
o chiusure. Anche Domenico Modugno subì la censura di alcune strofe di “Vecchio
frac” per allusioni vietate ad un atto d’amore, così come accadrà per alcuni
versi di “Resta cu’mme”. Ma non resteranno gli unici casi.
Per
quanto riguarda i canti militari, di certo uno tra tutti è “Il canto degli
italiani” che diverrà inno nazionale musicato e noto come “Inno di Mameli”.
Troviamo poi molte musiche per i Bersaglieri, tra cui spicca “La bella Gigogin”,
canto risorgimentale ispirato a canti piemontesi e lombardi, scritta nel 1858
dal compositore milanese Paolo Giorza e cantata per la prima volta a Milano il
31 dicembre di quell’anno. Chiare le allusioni alla dominazione austriaca sui
territori lombardi e la speranza, invito a Vittorio Emanuele II, in una imminente liberazione, come di fatto accadrà
nel 1859 con la Seconda guerra d’Indipendenza. “Piume al vento” aiutava la
marcia nei momenti difficili, così come “La Ricciolina” ambientata durante la Grande
Guerra.
Troviamo
poi molte canzoni alpine, tra le quali famosissima “Il testamento del
capitano”, brano del XVI secolo dedicato al marchese Michele Antonio di Saluzzo
e riadattato durante la prima guerra mondiale. Fa eco “Ta-pum”, riadattata da
un canto ottocentesco dei minatori durante la costruzione della galleria
ferroviaria del San Gottardo, in cui moltissimi persero la vita, e che richiama
in chiave onomatopeica il rumore dello scoppio delle mine. Lo stesso dicasi per
il rumore dei fucili che adoperavano i nemici austriaci sul Monte Ortigara,
citato nel testo nella trascrizione non chiaramente attribuita. Altrettanto
della Grande Guerra “Sul cappello” o “La penna nera”, ma gli esempi sono tanti
fino a “Signore delle cime” di Bepi (Giuseppe) De Marzi degli anni Cinquanta
del Novecento.
Sono
molte anche le canzoni dei Paracadutisti o dei Lagunari, spesso inneggianti
alle gesta eroiche, alla battaglia, all’essere pronti a combattere per la
Patria. Se infatti esistono testi di dolore per la morte dei compagni o per il
destino che non si profilava fulgido in battaglia, la maggior parte dei canti o
inni militari servivano per tenere alto il morale delle truppe o per scandire
il passo di marcia o per inneggiare alla giustezza delle proprie azioni contro
il nemico, l’invasore, colui che andava combattuto per un motivo moralmente
corretto, non soltanto per obbedire agli ordini.
Il
generale Armando Diaz scrisse personalmente a E. A. Mario per comunicargli come
la sua “La leggenda del Piave” avesse dato vigore alle sue truppe. Scritta di
getto dopo la battaglia del Solstizio del giugno 1918, la canzone dimostrava lo
sconforto per la disfatta di Caporetto, ma anche la volontà di riscatto che per
gli italiani era voglia di liberarsi definitivamente del giogo straniero. Non
mancano comunque canti di contestazione, come quelli contro l’operato del
generale Cadorna durante la prima guerra mondiale, ad esempio.
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