DIBATTITI
Sergio
Benedetto Sabetta
“ … l’afasia
strategico – concettuale che in questo frangente connota le grandi democrazie
occidentali ne accresce l’incoerenza e ne mina la credibilità, anche- ed è
forse il problema maggiore – agli occhi dei loro cittadini … In questa
confusione strategica, che l’America condivide con gran parte degli alleati
europei, si insinua la deglobalizzazione. Gli attori che ne sono protagonisti,
… ,non rigettano l’armamentario economico – industriale offerto loro
dall’Occidente come strumento di benessere e potenza. Ne indirizzano però i
mezzi ad altri fini, ad altri interessi. Sulla scorta di agende non più <
occidentali>.” ( 44- 45, F.
Maronta, L’incidente dell’Occidente, in “ Fine della guerra, Limes 4/2024).
Nella
confusione e scontro in atto vi è un ritagliarsi di sfere di influenza, in cui
nell’Occidente in termini strategici vi sono interessi divergenti, a cui si
affiancano una carenza sia numerica che culturale nell’identificarsi con la
Nazione e culturalmente nell’Occidente in senso stretto, oltre ad una
stanchezza psicologica nel porsi quale centro di riferimento.
Si
ottiene quindi una deglobalizzazione
a seguito del ripiegarsi in sé degli USA, dove alla crisi demografica si
affianca una crisi identitaria, favorita dagli spostamenti di popolazione a
seguito della modifica dei rapporti demografici, peraltro sfruttata in termini
di “ pressione” dalle potenze in
lotta.
A
questo si affianca, nell’individualismo esasperato favorito nell’attuale
modello economico e dall’uso dei social, un abbassamento della qualità
favorito, in particolare per l’Italia, dall’uscita all’estero dei giovani
culturalmente più preparati e meglio finalizzati.
Nella
mancata identificazione con la Nazione e con la relativa cultura viene a
perdersi la coesione sociale, occorreranno decenni per riempire il vuoto e dare
una finalità sociale alle nuove generazioni.
Una
finalità necessaria anche all’agire diplomatico, se si vogliono evitare guerre
senza fine e scontri civili, una mancata finalità sovrapposta ad una mancata
capacità di impegno come rilevato tanto in Italia che in Germania o Francia. ( Editoriale, 7 -32 , in “Fine della guerra”, Limes 4/2024)
Vi è
anche un errore prospettico dovuto alla mancata contestualizzazione della nostra
storia, a cui si affianca la cancellazione dei nostri valori portanti secondo
una visione dell’eterno presente e dell’imposizione di un “politicamente
corretto” che impedisce il contraddittorio ( F. Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori 2021).
Si può pertanto osservare che
le problematiche del cambiamento che investono le organizzazioni coinvolgono
oltre che la variabile strutturale quella relativa alla costruzione di una
cultura diretta allo sviluppo dei sentimenti di fedeltà e impegno verso
l’organizzazione, ma vi una terza
problematica più propriamente individuale che è la riduzione dell’ansia dei
singoli per il cambiamento, nonché per le loro conseguenti prospettive.
I rapporti tra le persone sono
determinati dalle aspettative che ciascuno si crea nel relazionare con gli
altri, ma queste aspettative sono anche il frutto di precise politiche
organizzative pianificate o confuse che siano.
Hirschman individua tre
reazioni in una politica di cambiamento, l’abbandono dell’organizzazione, la
protesta per l’insoddisfazione organizzativa e la fedeltà passiva
indipendentemente dalle prospettive future.
Le prime due acquistano
alternativamente rilevanza in funzione della possibilità o meno di un
ricollocamento, infatti l’uscita dall’organizzazione sarà favorita da una
dinamicità nel ricollocamento mentre in caso di rigidità prevale la protesta
interna.
La crescita della possibilità
di uscita genera un indebolimento del senso di appartenenza che può trasformarsi
in precarietà e insicurezza, dando voce a proteste distruttive fino a
sciogliere completamente l’identificazione con l’organizzazione.
Acquista pertanto rilevanza la
politica gestionale e la vision che essa esprime nel determinare
l’organizzazione e la sua cultura, creando nuovi rapporti tra i soggetti
coinvolti.
L’importanza della cultura è
fondamentale nel determinare il fallimento o il successo di un’organizzazione
quale parte non scritta dell’organizzazione stessa (Daft) in quanto
favorisce la capacità di attrarre ma soprattutto motivare le risorse umane
migliori.
Considerare il tessuto relazionale centrale per la fidelizzazione valutando
anche gli aspetti etici e relazioni, oltre che puramente emozionali, comporta
uno sforzo ed una capacità gestionale del tutto nuova per gli aspetti finora
considerati.
Il posizionare un’organizzazione in un rapporto
con l’intera dimensione umana e non solo con una porzione rappresentata dalla
sua finalità crea meccanismi di coinvolgimento molto complessi, in cui
prevalgono nell’organizzazione le capacità umane di gestire la complessità e la
sfaccettatura dei rapporti espressi e inespressi.
Il cambiamento che viene ad
investire la cultura dell’organizzazione se da un lato deve risolvere i
problemi concreti, dall’altro crea ansietà si che devono intervenire delle
azioni volte a ridurre l’ansietà promuovendo nuova sicurezza nel fare emergere
i nuovi valori su cui motivare le persone.
Interviene l’importanza della circolarità delle
informazioni le quali possono attivare forme di negoziazione e mediazione per
rendere evidenti tutte le alternative possibili.
Nel realizzare il cambiamento
occorre il sostegno della dirigenza che sponsorizzi lo stesso mettendo a
disposizione le risorse necessarie ed elaborando piani per un cambiamento
incrementale oltre le inevitabili resistenze (Daft). La nuova vision
dovrà riguardare non solo l’organizzazione e le finalità strategiche ma anche
la cultura che sta alla base dell’agire, creando modelli di riferimento.
L’importanza della vision
è fondamentale nel creare una tensione al cambiamento condivisa da tutti in modo da ridurre, nel tentativo di
perseguire i nuovi obiettivi, l’ansia derivante dal cambiamento per il venire
meno delle certezze conseguenti ai precedenti rapporti e valori.
Deve
essere una condivisione progettuale che supera la scissione tra obiettivi
chiari perseguiti e l’organizzazione con tutte le persone che in essa
convivono.
Questa vision si
risolve operativamente in una serie di traguardi di varia complessità da
raggiungere secondo tempistiche predeterminate, costituenti nell’insieme la
nuova frontiera dell’organizzazione.
La definizione della vision
deve nascere da una piena comprensione del contesto ambientale in cui
l’azione vive e interagisce con i fattori frenanti che intervengono.
Prima dell’aspetto propositivo
della vision deve essere chiarito l’aspetto investigativo della
mission, in altre parole occorre chiarire:
·
Chi siamo;
·
Dove siamo;
·
Dove andiamo;
solo successivamente si potrà definire la vision con:
·
Dove andare o dobbiamo andare;
·
Come fare.
Maggiore è la precisione dell’individuazione di
ciò che si è, maggiore sarà la possibilità di definire un obiettivo
effettivamente raggiungibile evitando percorsi dispersivi, così come
altrettanto importante è l’individuazione dei fattori esterni che influenzano
l’organizzazione nonché la loro rilevanza.
Solo nel momento in cui viene
individuata la direzione futura e debitamente corretta la precedente inerziale,
si può progettare una adeguata strategia.
Il processo di formazione
della vision non è lineare ma cresce per progressive approssimazioni
spiraliformi, la visione culturale che sta alla base del processo può
interpretare negativamente il cambiamento come rischio o piuttosto come
opportunità di crescita, sviluppando una cultura capace di fondere e unire
anziché separare.
Si passa da semplici risposte
ai problemi (problem solving), allo sforzo di riformulare i
problemi secondo nuovi punti di vista (problem setting).
Il contesto economico in cui
operano le organizzazioni in generale, è caratterizzato da una progressiva
accelerazione del cambiamento, da strette interconnessioni tra elementi una
volta ritenuti indipendenti e dal prevalere di elementi immateriali quali
conoscenze e relazioni sugli aspetti fisici, questo comporta che il cardine del
processo di cambiamento risulta essere la comunicazione ed il Know How
delle persone.
I modelli organizzativi che
prevalgono sono quelli a rete strategicamente flessibili, autorganizzativi, in
cui si instaura un circolo virtuoso fondato sulla comunicazione e la learning
organization.
Ma l’elaborazione di una vision
richiede una forte leadership che comunque gestisca il cambiamento superando
gelosie e resistenze, nonché invidie che pongano veti incrociati bloccando l’emergere
di nuove figure più adatte alla nuova strategia, interviene nuovamente il
richiamo al fattore culturale.
Un qualsiasi cambiamento
scatena gelosie e rabbia, gelosie per i presunti o reali altrui successi e
rabbia per la paura della perdita di qualcosa ritenuto prezioso, quale il posto
di lavoro, le risorse esistenti o più semplicemente il controllo sull’attività
da svolgere (Florence Stone).
In questi momenti acquista
ancor più rilevanza l’influenza esercitata dalla leadership che può rivelarsi patogena
o salutare misurandosi con se stessa e con i sistemi di valore individuali e
dell’organizzazione, nel creare una vision deve motivare con
comportamenti costanti e coerenti al nuovo orizzonte indicato, sapendo che il
linguaggio informale è altrettanto incisivo del linguaggio formalizzato.
La
responsabilità del ruolo deve indurre alla pacatezza nelle decisioni, che
sebbene rapide non devono assumere una forma nevrotica, ma soprattutto deve
mancare l’approccio “mercenario” di
colui che gestisce guadagnando e preparandosi ad uscire dal gioco di squadra,
dando l’idea del capitano che si prepari ad
abbandonare la nave.
Le qualità che caratterizzano una leadership equilibrata tesa al futuro
sono la consapevolezza visionaria, la sensibilità multiculturale, la
intuizione, il senso del rischio, l’autocoscienza il tutto deve creare un clima
organizzativo che incoraggi un senso di orgoglio e determinazione integrando e
trasformando, avendo sempre attenzione al collegamento tra i valori
dell’organizzazione e quelli del cambiamento in atto.
La forza d’animo e la
decisione nel forzare una situazione sfavorevole creando nuove prospettive, non
deve indurre a perdere il rispetto verso i collaboratori, senza superbia né
eccessiva confidenza che sfoci verso una stucchevole bonomia o un’irritante
paternalismo.
Un esempio particolarmente
illuminante di una tale leadership la si può ricavare dalla condotta di Robert
Edward Lee il quale nell’assumere il comando militare delle forze
confederate nella primavera del 1862, in un momento in cui la Confederazione
era stretta da ogni dove dagli eserciti Unionisti riuscì a ribaltare la
situazione fino a minacciare la stessa capitale nemica Washington, obbligando
sulla difensiva forze superiori e dando respiro ad una situazione di fatto già
compromessa.
La Grande Unità di cui nel
giugno 1862 assunse il comando divenne la celebre “Armata della Virginia Settentrionale”, un insieme formidabile, una
fusione in un solo blocco di uomini, veterani di decine di scontri, guidata da
capi abili e prestigiosi collegati da un rispetto ed una stima reciproca e
profonda con i propri uomini.
Bibliografia
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