APPROFONDIMENTI
Sergio Benedetto Sabetta
( Seconda parte)
LA MEMORIA E LA STORIA
Attualmente
vi è la tendenza a ridurre la storia ad una serie di fatti autonomi, non calati
nel contesto, vi è quindi una distorsione della loro lettura.
Si arriva
addirittura a cancellare la storia quale elemento superfluo, vivendo in un
eterno presente, fondato sul concetto economico neoliberista per cui tutto si
ridurrebbe al solo aspetto economico di una continua crescita quantitativa del
consumo, indipendentemente dalla qualità.
Si introduce
l’idea della a-storia quale “fine della storia”, seconda una visione messianica
non realizzatasi, ma la rinuncia alla propria storia crea una debolezza
identitaria che ne favorisce la manipolazione, una rivendicazione di diritti
senza chiari doveri che in tal modo vengono a disarticolare il tessuto sociale.
L’Occidente
soffre di tre crisi: psicologico – culturale, demografica e di una visione
strategica condivisa, questo favorisce la volontà di affermazione di altre
potenze globali che si ritagliano proprie aree geografiche di influenza.
In questo
contestare la supremazia occidentale, rappresentata dagli USA, rientrano gli
eccessi della cultura woke e della cancel culture, nate in California, che
creano un senso di colpa nell’Occidente senza cogliere la dimensione
progressiva della storia.
La memoria è
dinamica e quindi strettamente connessa alla libertà, la sua cancellazione in
un continuo presente ( a- storia) conduce alla perdita inconsapevole della libertà,
indolore ma per questo più profonda e subdola.
Ne sono
testimonianza le continue polemiche sulle varie figure storiche e fatti che
vengono astratti dal contesto storico,
per divenire puro strumento di lotta ideologica avulso da qualsiasi riflessione
storica, come il disamore verso la nostra cultura che rende indifferenti alla
perdita di tradizioni e artigianato in una male intesa globalizzazione, a
questo si oppone quale richiamo la presente pubblicazione.
L’Italia ha
una storia particolare, è fondata sulla storia, incrocio di tre continenti è
una penisola posta al centro del Mediterraneo, ricca per il suo valore
strategico, economico e culturale, sempre contesa dai potentati esterni e
indebolita internamente da quello che “ Foscolo nella – Lettera apologetica -,
vedeva nell’interessata collusione degli intellettuali italiani”, e non solo, “
con lo straniero il pericolo sommo” ( 50 – 51, Il futuro della memoria, AA.VV.,
Limes , 4/2024).
Altipiani
Il fronte
sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché
l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da
una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini,
furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali
italiani, di un effetto veramente schiacciante.
La Strafeexpedition travolse l’intero
altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e
Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.
La battaglia
avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri
colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i
feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima
linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca
resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle
dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento
oltre il Piave fino al Po e al Mincio.
Si giungeva
nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo un lungo errare per camminamenti sconosciuti ,
ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto
immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre,
come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena
bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.
I rincalzi
venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un
simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza
ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o
indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe
stato troppo duro riconquistare la cima.
Colbricon
Il Colbricon
è tagliato netto in due da una parte un pendio agevole di sassi, di grandi
rocce e di pascoli, percorso da
frequenti piccoli rigagnoli d’acqua: il
versante nemico. Da questa parte una parete verticale sotto le cui altissime
pale vi sono sentieri vertiginosi, terrazzini aerei, ballatoi tremanti, scale
verticali per vincere il precipizio: le posizioni italiane presidiate da fanti
e bersaglieri, non dunque alpini, la brigata Calabria.
Questa
brigata costituita da pastori jonici, contadini umbri, maremmani e ciociari, in
gran parte con veneti della costa o delle paludi, questi tennero le posizioni a
2.700 metri contendendole agli austriaci in sortite sulle sassaie perennemente
ingombre di neve, perdendole e riprendendole.
Nella parte
inferiore del monte vi erano le baracchette scavate nella roccia dove
alloggiavano ufficiali e telefonisti, più in alto le nicchie e i covi a cui si
accedeva per scalette piantate nella roccia. Nelle nicchie e nei buchi vicino
alle feritoie vi erano le coperte da campo, le cartoline in franchigia, le
gavette, i calzari contro il gelo, le “fipe” già discaspulate.
Carso
Non è Carso,
il Podgora è il Podgora. Quando nella primavera del 1915 i primi reparti
valicarono il confine, i battaglioni si nutrivano di ciliegie e frutta raccolta
sul posto in quanto il rancio non arrivava, ma avanzavano fiduciosi nelle nuove
terre finchè vennero bruscamente fermati da queste irte difese.
Allora si
interrarono e restarono fermi per mesi e mesi, ficcati nel suolo che in autunno
si trasformò in un fondo pantano, con ricoveri di fango che crollavano addosso
per la pioggia, senza ranci caldi, andando all’assalto dei reticolati intatti,
senza adeguati tiri d’artiglieria a copertura senza elmetti e con le sole
forbici tagliafilo, gli ufficiali in diagonale e fregi argentati sguainavano
negli attacchi le sciabole brunite.
Tuttavia in
un impeto giovanile venivano lanciate all’assalto e rilanciate in una
carneficina le brigate Pistoia, Pavia, Re, Casale, Carabinieri, sotto il fuoco
delle mitragliatrici e della fucileria rotolavano giù per il pendio i morti e i
feriti con gli sbandati, ma bastò un giorno che un trombettiere della brigata
Re caporale Ippolito suonasse nella tromba a vanvera tutte le arie della
caserma, “cappella marca visita” e “adunata seconda compagnia”, perché le schiere
si riordinassero e tornassero nuovamente all’assalto dei reticolati intatti, la
morte non fu più un’attendere ma divenne una costante del fante.
Nel Carso
accanto al Podgora vi è il San Michele dove vi era una palude morta il lago di
Doberdò, qui si arrestarono per lunghi mesi
gli sforzi degli assalitori, per superarlo al volo dopo la conquista di
Gorizia, la valle non fu mai commemorata come luogo di battaglia.
Doberdò sia
gli italiani che gli austriaci lo chiamarono concordemente l’inferno, come la
cima del San Michele che fu detta dagli ungheresi “il monte dei cadaveri” tanti
erano ammucchiati che ne aveva mutato il profilo.
In queste
buche mezze colmate di fango irruppero i fanti della Perugia, fasciati i piedi
dai sacchetti per la sorpresa notturna, il terreno era duro e di sasso come i
parapetti delle trincee dove non si era avuto il tempo o i mezzi per scavare.
Quando i proiettili dell’artiglieria
vi battevano dentro le schegge si moltiplicavano, esse cadevano tutto intorno
in una grandine di pietre, quelle trincee e quei camminamenti durante le piogge
si convertivano in torrenti di fango, in fosse di melma alta e densa che
cancellava mostrine, uniformi e connotati alle persone, passando con uguale
intonaco viscido sulle armi, sulle ferite e sui cibi.
Dai posti avanzati durate le tregue
del fuoco, i fanti potevano vedere, immersi nelle trincee, nella pianura
Gorizia avvolta nella caligine come una meta lontana e preclusa.
Ortigara
Da un lato la montagna cade a piombo
sulla Valsugana, scendendo rapida sul Passo dell’Agnella da dove venne
l’attacco, dall’altro lato l’altopiano si estende senza forma né confini per
leggere valli e modeste ondulazioni, arido simile a un gigantesco Carso, dove
le doline si chiamano buse, le quote s’innalzano a 1.500 e a 2.000 metri:
Campigoletti, Cima Lozze, Caldiera, Campanaro e il famigerato Corno di Campo
Bianco, nido degli osservatori austriaci.
Vi erano dalla parte italiana 26
battaglioni alpini, due brigate di fanti, un reggimento di bersaglieri, con
batterie da montagna in prima linea a tirare a raso zero. Dalla parte austriaca
i battaglioni scelti del celebrato “III Corpo d’Armata di ferro”.
La battaglia durata venti giorni fece
tuonare più di quattromila bocche da fuoco tra cannoni, obici, mortai, bombarde
e nuvole di gas e fiamme sopra pochi chilometri quadrati, mentre gli austriaci
erano insediati in caverne organizzate delle quali i nostri bollettini ne
tacquero l’esistenza.
La carneficina causò tra le nostre
fila 30.000 perdite fra morti e feriti, in poche ore dei reparti coinvolti ne
restavano avanzi sparuti, “i battaglioni ritirati dall’inferno dell’Ortigara
sono scorie”, come riferisce la relazione ufficiale austriaca, si comprende
così il grido disperato di quei fanti della brigata Regina dopo venticinque
mesi di guerra: “Ridateci il nostro Carso!”.
Nella primavera del 1917 i soldati
non credevano più alla propaganda sulla vittoria ma non si pensava alla
sconfitta, erano come dei sonnambuli, quasi bambini dallo sforzo di non pensare
troppo, due anni di guerra aveva scavato un abisso tra il paese e il fronte,
allora nel paese non vi era quel desiderio di finire presto questa guerra, con
il malcontento per il vitto sempre più raro, per il disagio crescente, lo
scontro tra soldati in linea e imboscati, e campagne assenti per mancanza di
braccia.
In linea, al contrario vi era un
rassegnato adattamento a dover lasciare
prima o poi la vita in questa mattanza che non finiva più, tuttavia
annebbiati in quell’apatia che diviene spesso una benefica anestesia, gli
ordini delle varie operazioni si eseguivano senza ribellione e fede anche nel
prevederne il fallimento. Talvolta
l’inerte ubbidienza cedeva a improvvise ribellioni immediatamente represse con
ferocia.
Nonostante fossero sfiduciate
sull’Ortigara le truppe rimasero fedeli e uscite dalle trincee riuscirono a
conquistare le tre cime, tuttavia sul fianco sinistro l’offensiva era fallita
ed era stata del tutto abbandonata.
Ricevuto l’ordine di fermarsi sulle
posizioni conquistate si trincerarono e in uno spazio incredibilmente ristretto
decine di migliaia di uomini furono
investiti dal fuoco delle artiglierie, da nuvole di gas e torrenti di liquidi
infiammabili, le tre cime furono perse e riconquistate tra attacchi e
contrattacchi respinti mentre le retrovie subivano furiosi bombardamenti.
Si racimolarono gli ultimi brandelli
di battaglioni, due battaglioni rimasti per miracolo intatti furono anch’essi
buttati nel fuoco e si andò all’attacco riconquistando il terreno perso e
facendo dei prigionieri, per cinque giorni si rimase inchiodati sulle posizioni
riconquistate disfacendo gli ultimi reparti.
Venne alfine l’ultimo attacco nemico
che travolse la cima riconquistata ma si riuscì a contenerlo arrestandolo poco
sotto, solo quando arrivò l’ordine di rientro, a scaglioni si sganciarono, una
squadra del battaglione Cuneo non venne informata dell’ordine del ripiegamento,
rimase tutta la notte e tutto il giorno seguente al suo posto rientrando illesa
ventiquattro ore dopo, con il nemico che dubbioso della sua vittoria non aveva
osato scendere dalla cima.
Guardando fuori dalle trincee della
Caldiera si vedeva l’Ortigara cambiare colore, fumare in giallo e nero per le
esplosioni ed i gas, ma nonostante tutto si resisteva nonostante lo scoramento
e la mancanza di un senso nella lotta quotidiana se non sopravvivere, in uno
scatto di orgoglio la frase la disse per tutti l’alpino Santino Calvi del
battaglione Bassano : “ Vedrete oggi, come sanno morire gli alpini italiani !”,
e morì. “ Me fa pecà” ricordò il vecchio alpino del Val Brenta.
Monte
Grappa
La cima del Grappa è ancora incisa
dalle trincee e scavata da chilometri di caverne, oggi spianata da un Ossario,
cimitero monumentale per i caduti che tra il 1917 e il 1918 trasformarono la
montagna nel cardine della difesa tra la pianura del Piave e le catene montuose
del Trentino.
Il 24 ottobre 1918 da questo monte
iniziò l’ultima battaglia, quella della vittoria, fu una lotta dura e feroce
esasperata dalla volontà di resistenza dei nemici, in Europa vi era una
stanchezza per la guerra infinita, i cittadini tumultuavano, vecchie e nuove
nazionalità esplodevano in ribellione e i diplomatici pensavano già al dopo
guerra.
Sulle balze del monte le migliori
truppe d’Italia e quelle più solide dell’Austria si scontravano furiosamente,
brigate di fanti fatte con le reclute del 1899, ma inquadrati da veterani delle
battaglie precedenti,reparti d’assalto di fiamme nere e fiamme rosse, vecchi
battaglioni d’alpini che si erano già
scontrati sulle Tofane, sull’Ortigara, sul Vodice e sul Tomatico, iniziarono
l’ultima battaglia per stornare il nemico dal piano e dal fiume Piave.
Nella nebbia mattutina escono gli
arditi del XXIII reparto d’assalto e fanti della Pesaro contro il Pertica, gli
arditi del IX reparto e fanti della Bari contro l’Asolone, gli alpini e i fanti
della Lombardia e dell’Aosta contro i Salaroli e il Valderoa. Il primo giorno
della battaglia non porta altri vantaggi che la conquista del Valderoa.
Il 25 la brigata Pesaro conquista il
Pertica e riesce a conservarlo, l’Asolone è preso dagli arditi che balzano
oltre l’obiettivo dell’assalto fino a raggiungere il Col della Berretta, più
tardi riconquistato con un violento attacco dal nemico che annienta i
difensori, al Col del Cuc, ai Salaroli e oltre il Valderoa gli italiani vengono
fermati dai reticolati intatti, dalle difese scavate nella roccia e dalla
nebbia.
Animose pattuglie si fanno sotto i
reticolati, li riescono a valicare, ma i rincalzi non possono seguirli, sono
quindi distrutte, altri reparti ne imitano l’eroismo subendo la stessa sorte, i
veterani sentono per la prima volta dietro di sé l’intero paese.
Nel disfacimento del vecchio Impero
austriaco, vengono a rinforzo gli ultimi
soldati delle divisioni di Boroevic,
questo è l’ultimo duello, devono resistere e riescono a farlo bene nella
ricerca di un armistizio onorifico al fine di salvare l’Austria dall’invasione
e con essa la corona all’Imperatore.
Avanza la celebre divisione Edelweiss, e con essa i territoriali
croati del 27° reggimento che si offrono volontariamente per la battaglia,
ignari che tra una settimana si proclameranno nostri alleati, i Galiziani del
120° , i Cechi e i Bosniaci, mussulmani realissimi a Sua Maestà Imperiale.
Alla testa avanzano le Sturm-truppen , truppe d’assalto con
alla testa il terribile 55° reparto,
seguono le divisioni di riserva tenute in serbo negli alloggiamenti tra il
Piave e Belluno.
Gli Austriaci sanno che il Piave è in
piena e che la corrente travolge i ponti, gli Italiani sono in crisi nel
forzarlo, si cerca di capovolgere l’esito della battaglia sulle pendici del
massiccio del Grappa.
La notte del 26 ottobre il
battaglione alpini Aosta a selletta Valderoa viene attaccato e resiste
contrattaccando per 12 ore, quando finalmente arrivano i rinforzi poche decine
di uomini rimangono validi: 10 ufficiali morti e 15 feriti, 130 soldati morti e
640 feriti danno al battaglione, già distrutto un anno prima al Vodice due anni prima al Pasubio, il titolo
nobiliare di “massacratissimo”.
Gli alpini del Pelmo e reparti della
Bologna occupano Col del Cuc, sull’Asolone fanti della Forlì e arditi XVIII
reparto per venti volte assaltano le trincee nemiche finché alla sera la
montagna rimane agli austriaci.
Il 27 ottobre cade il Valderoa invano
difeso fino al totale annientamento da una compagnia del battaglione Cadore
senza più ufficiali ed ai superstiti del battaglione Aosta. Anche il Pertica è
perso, riconquistato e riperduto, alla sera il Pertica è nuovamente e
definitivamente italiano, ma gli austriaci serrano minacciosamente ancora
sotto.
Il 28 è un giorno di tregua relativa,
il 29 la battaglia divampa ancora con rinnovata violenza, arditi e fanti della
Calabria si dissanguano sul Col della Berretta,altri reparti di arditi
riprendono l’Asolone ma vengono di nuovo scacciati, ben 17 assalti vengono
respinti finché con tenacia i reparti della Siena irrompono sulla vetta e la
difendono contro rinnovati attacchi nemici che tuttavia alla sera riescono a
scacciarne gli italiani, l’ultimo sforzo vittorioso austriaco.
Tuttavia il nemico è caduto nel tranello
riversando sul Grappa la maggior parte delle riserve e logorando le sue truppe
migliori, sul Piave nel frattempo la battaglia è vinta con la presa della piana
di Sernaglia, viene pertanto dato l’ordine dal Comando Supremo all’Armata del
Grappa di sospendere l’offensiva costata la perdita di trentamila uomini.
( Paolo Monelli, Sette battaglie,
Treves 1928)