APPROFONDIMENTI
LA LUNGA E CALDA ESTATE DEL 1943
Dichiarata la guerra nel 1940, l'Italia andò incontro ad una serie di rovesci che ebbero il culmine ad El Alamein e con la ritirata di Russia. Fermo il valore militare del soldato italiano nella seconda guerra mondiale, la grande strategia adottata dal vertice politico-militare del tempo non ebbe sul campo i riscontri sperati. Con la caduta della Tunisia nel maggio del 1943 e la promozione a Maresciallo d'Italia del Gen. Messe, mentre si avviava in prigionia, ebbe fine la presenza militare italiana in Africa iniziata in epoca crispina. Ora il nemico minacciava il territorio metropolitano e la guerra era giunta in casa. Iniziava quella delicatissima pagina politico-militare, ovvero quella "lunga e calda estate del 1943" in cui i protagonisti del tempo affrontavano una realtà difficile ed imprevedibile.
Alessia Biasiolo*
Sbarcati
gli anglo-americani in Sicilia, la scelta alleata fu quella di uccidere
Mussolini, in modo che, fuori gioco il Duce, gli italiani si sarebbero resi
conto che il fascismo non poteva continuare ad essere la scelta politica giusta
per il Paese. Le missive segrete o segretissime correvano da un comando all’altro
e, mentre gli Americani erano convinti di continuare a bombardare Roma allo
scopo di arrivare non solo a piegare la resistenza dei nervi degli Italiani, ma
anche a radere al suolo, possibilmente, Palazzo Venezia e Villa Torlonia,
Churchill era perplesso sulla necessità di una soluzione così drastica. Poco
importava ai comandanti come Harris di dover distruggere monumenti storici
unici al mondo, perché in quel momento risultava imperativo soltanto piegare la
dittatura italiana. Churchill si consultò con il ministro degli Esteri Anthony
Eden che, il 14 luglio 1943, gli rispose di non essere d’accordo
sull’operazione denominata “Dux”, in quanto non era sicuro che Mussolini sarebbe
stato nei suoi due siti (Palazzo Venezia e la Villa), non era certo che il
bombardamento ne avrebbe causato la morte e, in caso l’operazione non fosse
riuscita, si rischiava di tramutare la causa dei problemi in un idolo
ulteriore. Il rischio, inoltre, di causare pesanti danni al patrimonio storico
di Roma senza successi militari e politici, oltre all’estrema sofferenza
inferta alla popolazione civile, avrebbe tramutato i “liberatori” in nemici
assoluti del popolo italiano. Questo era il clima dei nemici, mentre Mussolini
e Hitler si incontravano a Feltre e, come abbiamo letto, i bombardamenti su
Roma non smettevano. Infatti, se si fermavano a terra gli aerei inglesi,
recuperavano terreno quelli americani, che a loro volta organizzarono
bombardamenti sulla Città Eterna per il 19 luglio, pur senza l’intento di
colpire Mussolini, fatto comunque inutile, dato che era a Feltre per l’incontro
con l’alleato tedesco. I risultati furono, invece, di distruggere numerosi
siti, in modo particolare intorno a Ciampino, mentre i quartieri civili
distrutti furono molti, inutilmente. Gli anglo-americani, inoltre, avevano
abbandonato l’operazione “Brimstone” sulla Sardegna, per concentrarsi
nell’avanzata verso Napoli e Salerno. Alternativamente, inglesi e americani organizzavano
incursioni aeree che sfiancavano la resistenza italiana, sia sul piano militare
che psicologico.
Rientrato
a Roma, Mussolini si trovò a dover affrontare un clima pessimo. Il generale Vittorio
Ambrosio si era già incontrato con il Re prima dell’incontro di Feltre, per
discutere della destituzione di Mussolini. Ambrosio era convinto che, a fronte
dell’iniziativa di sganciarsi dall’alleato tedesco, sostituendo all’occorrenza
Mussolini con Badoglio o Caviglia, sarebbe riuscito a convincere il Duce a
dichiarare una pace separata con gli aglo-americani, ma dopo l’incontro di
Feltre, rivelatosi infruttuoso, era evidente che l’unica soluzione possibile
era destituire Mussolini. Nel frattempo, un’iniziativa simile venne presa dal
Partito Fascista, nella persona dei componenti del Gran Consiglio del Fascismo.
Vittorio Ambrosio dal 20 luglio 1943 seppe che, essendo stato vano ai fini
delle mire reali l’incontro con Hitler, Vittorio Emanuele III voleva
sostituirlo con il Maresciallo Badoglio, ma non seppe rompere gli indugi fino
alla decisione del Gran Consiglio.
Il
20 luglio, Mussolini si recò a visitare le zone di Roma colpite dai
bombardamenti soprattutto americani del giorno prima. Al mattino verificò gli
esiti del raid aereo all’aeroporto del Littorio e all’Università, nel
pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove non mancarono manifestazioni in suo
favore. Quindi dovette recarsi dal Re a riferirgli dei colloqui di Feltre con
l’alleato. Il clima non era dei migliori. Trovò il Re accigliato, nervoso, gli
disse che la situazione era tesa e: “Non può più a lungo durare”. La Sicilia
perduta, il morale delle truppe scaduto, tanto che gli avieri di Ciampino erano
fuggiti a Velletri durante l’attacco, sostenne: “I Tedeschi ci giocheranno un
colpo mancino”, ma del resto era stato chiesto loro di inviare truppe per
contenere l’avanzata nemica. Aggiunse: “L’attacco dell’altro giorno io l’ho
seguito da Villa Ada, sulla quale le ondate sono passate. Non credo che fossero
come si è detto quattrocento gli apparecchi incursori. Erano la metà. Volavano
in perfetta formazione”, ciò a dire che nessuno li aveva in qualsiasi modo
infastiditi, contrastati da terra. “La storia della ‘città santa’ è finita.
Bisogna porre il dilemma ai Tedeschi…”. Questo fu l’ultimo colloquio di lavoro
tra il Re e Mussolini, che si incontravano regolarmente due volte la settimana
dal novembre 1922 al Quirinale, il lunedì e il giovedì, Mussolini accompagnato
dal Sottosegretario alla Presidenza. Altri incontri avvenivano in altre
giornate, e in estate praticamente tutti i giorni, come quel mercoledì; il
rapporto tra i due era cordiale, ma non divenne mai amichevole. Vittorio
Emanuele III si era sempre dimostrato restio nelle scelte di guerra, tranne per
la dichiarazione del 1940, da come ne scrisse Mussolini. Quello stesso
mercoledì, a mezzogiorno, il segretario del partito Scorza portò a Mussolini
l’ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo di Grandi. Il Duce lo lesse
e lo considerò inammissibile e vile. Scorza parlò a Mussolini di un “giallo”,
ma non fu ben chiaro. Nel pomeriggio, Mussolini ricevette Grandi che trattò
diversi argomenti, ma non affrontò quello dell’ordine del giorno.
L’indomani,
Scorza parlò ancora a Mussolini di giallo in corso, ma sempre senza
precisazioni, tanto che di nuovo il Duce pensò si trattasse di una delle solite
voci di cambio ai vertici; verso sera, Grandi ipotizzò di rinviare la riunione
del Gran Consiglio, come manovra ennesima e, forse, tentativo di crearsi un
valido alibi, ma Scorza non ebbe conferma del rinvio quando telefonò a
Mussolini. Questi sostenne che, ad inviti diramati e giorno fissato, si doveva
arrivare ad un chiarimento. E così fu.
La
riunione del Gran Consiglio ebbe luogo a Palazzo Venezia il 24 luglio, sabato,
alle ore 17, alla presenza di 28 membri, su ordine del giorno di Grandi che
recitava queste parole, dattiloscritte: “Il Gran Consiglio del Fascismo
riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo
pensiero agli eroici combattimenti d’ogni arma che, fianco a fianco con la
fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo
italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e l’indomito spirito
di sacrificio della nostre gloriose Forze Armate.
Esaminata
la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della
guerra:
proclama
il
dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità,
l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi
di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del
popolo italiano:
afferma
la
necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora
grave e decisiva per i destini della Nazione;
dichiara
che
a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali,
attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle
Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi
statutarie e costituzionali;
invita
il
Governo a pregare la Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e
fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per
la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di
terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5° dello Statuto del Regno,
quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui
attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il
retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
Seguono
la data e le firme dei partecipanti: Grandi, Presidente della Camera; Federzoni, Presidente dell'Accademia; De
Bono, quadrumviro; De Vecchi, quadrumviro; il genero di Mussolini Ciano, membro
a titolo personale; De Marsico, Ministro della Giustizia; Acerbo, Ministro
delle Finanze; Pareschi, Ministro dell'Agricoltura; Cianetti, Ministro per le
Corporazioni; Balella, della Confederazione dei Datori di Lavoro
dell'Industria; Gottardi, Confederazione dei Lavoratori dell'Industria;
Bignardi, Confederazione degli Agricoltori; De Stefani, Alfieri, Rossoni,
Bottai membri a titolo personale; Marinelli, ex-segretario amministrativo del
Partito fascista; Albini, Sottosegretario agli Interni; Bastianini,
Sottosegretario agli Esteri. Albini e Bastianini erano stati invitati, pur non
appartenendo al Gran Consiglio. Mentre Farinacci, membro a titolo personale non
firmò, ma si astenne anche di presentare il suo ordine del giorno in difesa del
regime. Non firmarono il documento Scorza, Segretario del Partito fascista;
Biggini, Ministro dell'Educazione; Polverelli, Ministro della Cultura Popolare;
Tringali Casanova, Presidente del Tribunale Speciale; Frattari, della
Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Agricoltura; Buffarini, membro a titolo
personale; Galbiati, Comandante della Milizia. Si astenne il Presidente del
Senato Suardo. Anche l’ordine del giorno di Scorza, che voleva difendere
l’operato del regime, non venne preso in considerazione.
In realtà, il documento
riporta il principale ruolo italiano al Re, ma senza citare la cancellazione
del regime. Sembra che i membri del Gran Consiglio non si fossero resi conto
che, volendo deporre Mussolini come scelta per cercare di migliorare le sorti
dell’Italia, sarebbero stati strumento del Re che aveva già preso le sue
decisioni e che non aspettava fors’altro che il momento opportuno per attuarle.
Sembra che ognuno riponesse fiducia in ciò che doveva fare qualcun altro,
nell’intento forse di creare un triunvirato o di cercare il modo di salvare il
partito e l’Italia, sacrificando soltanto la posizione di Mussolini. Il quale
viene messo in minoranza dal Gran Consiglio per 19 voti a sfavore, 8 a favore e
1 astenuto. Sono quasi le tre di notte del 25 luglio. L’ordine del giorno
Grandi viene approvato, Mussolini deve rimettere il mandato al Re. Cianetti
cambiò idea di lì a poche ore, ma il risultato non cambiava lo stesso. Grandi
affidò al Ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone, lo stesso portavoce tra
il re e il generale Ambrosio, il compito di informare il Re della decisione del
Gran Consiglio.
Cos’era
accaduto? Intanto, la riunione si doveva tenere come al solito alle 22, e
invece era stata debitamente anticipata, prevedendo che la discussione sarebbe
stata lunga. Negli intenti di Mussolini, doveva essere quasi una riunione
segreta per chiarirsi tra loro, invece tutti i membri del Gran Consiglio erano
puntuali, in uniforme, la classica sahariana nera. Non mancava nessuno. Il
discorso iniziò da Mussolini, che espose una serie di documenti.
Mussolini
dichiarò che la guerra era giunta ad una fase critica, dato che l’ipotesi che
sembrava assurda di invasione del territorio metropolitano si era avverata. La
vera guerra era iniziata dalla perdita di Pantelleria.
“In
una situazione come questa tutte le correnti ufficiali, non ufficiali, palesi e
sotterranee ostili al Regime fanno massa contro di noi e hanno già provocato
sintomi di demoralizzazione nelle stesse file del Fascismo, specialmente tra
gli ‘imborghesiti’, cioè fra coloro che vedono in pericolo le loro personali
posizioni”.
E
aggiunse: “In questo momento io sono certamente l’uomo più detestato, anzi
odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte della masse ignare,
sofferenti, sinistrate, denutrite, sottoposte alla terribile usura fisica e
morale dei bombardamenti ‘liberatori’ e dalle suggestioni della propaganda
nemica”.
Egli
era il responsabile della guerra ed era anche stato delegato al comando delle
Forze Armate dal Re, ma su idea di Badoglio. A quel punto, Mussolini ricordò le
varie fasi della decisione del Re, la volontà di Badoglio di avere un ruolo di
primo piano nel conflitto, e molti altri dettagli della sua attività politica
ultima, mettendo infine in chiaro che l’ordine del giorno Grandi sarebbe stato
un pericoloso passo per l’esistenza del Fascismo stesso. Grandi prese la parola
con notevole violenza, come volesse sfogarsi da tempo per ruoli interni. La
discussione divenne accesa, fino a quando, verso mezzanotte, il Segretario
Scorza propose il rinvio, che venne negato, e anche Mussolini era di
quell’avviso. Dopo una pausa di un quarto d’ora, necessaria alla lettura dei
telegrammi dalle zone operative, la seduta riprese, continuando la discussione,
che finì con le parole di Mussolini stesso, alla lettura dell’esito della
votazione dell’ordine del giorno Grandi da parte di Scorza: “Voi avete
provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!”. Dispensò anche i presenti
dal saluto al Duce che Scorza voleva chiamare e si ritirò nel suo studio, dove
venne raggiunto dai membri del Gran Consiglio che avevano votato in suo favore.
Mussolini lasciò Palazzo Venezia verso le 3, accompagnato a Villa Torlonia da
Scorza stesso.
La
mattina della domenica, 25 luglio, Mussolini si recò come al solito al lavoro a
Palazzo Venezia, dove arrivò per le 9. Alle 11 gli portarono il mattinale con
la brutta notizia del bombardamento di Bologna. Arrivò notizia del ripensamento
di Cianetti, mentre Grandi era irreperibile e Albini venne interrogato
direttamente dal Duce circa la decisione di votargli contro, fatto non
concesso, dato che non era membro del Gran Consiglio, e Albini, tra le scuse e
il rossore, ammise solo l’ipotetico errore, ma anche l’assoluta fedeltà. In
realtà elemosinerà un posto a Badoglio nel giro di poco tempo.
Mussolini
incaricò quindi il suo segretario particolare di telefonare al generale Puntoni
per chiedere quando il Re sarebbe stato disposto a riceverlo, in abiti civili.
L’appuntamento venne fissato a Villa Ada per le 17 dello stesso giorno.
Alle
13, incontrò l’ambasciatore giapponese Hidaka, al quale riferì l’incontro di
Feltre, quindi si recò in visita al quartiere Tiburtino, particolarmente
colpito dal bombardamento del 19 luglio. Rientrò a Villa Torlonia per le 15,
dove, alle 16.50, giunse il segretario particolare che lo accompagnò a Villa
Ada.
Il
suo animo era tranquillo, pensava di riferire sui fatti della notte e di
rimettere il comando delle Forze Armate, se il Re lo avesse richiesto, o forse
anche lo stesso, come pensava di fare da tempo. Il Re lo aspettava sulla porta
della Villa, vestito da maresciallo; in giro un rinforzo di Carabinieri. Lo
fece accomodare in salotto, il volto teso, e gli disse: “Caro Duce, le cose non
vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non
vogliono battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non
vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini”, e canticchiò dei versi
della canzone in dialetto piemontese. Aggiunse che a Mussolini non era rimasto
altro amico che lui stesso, con la rassicurazione che lo avrebbe fatto
proteggere. L’uomo della situazione, in quel momento, era il maresciallo
Badoglio che avrebbe cominciato a formare un Ministero di funzionari per
l’amministrazione e avrebbe continuato la guerra. Tutti si attendevano un
cambiamento, essendo venuti a conoscere della notte del Gran Consiglio e si
sarebbe visto cosa sarebbe accaduto di lì a sei mesi. Mussolini mise davanti al
Re le sue perplessità sulla scelta politica e militare, che avrebbe significato
la sensazione di una vittoria per i nemici e per gli italiani l’idea che la
guerra stava finendo, ma il Re lo congedò, livido in volto. Erano le 17.20.
Mussolini, andando verso la sua automobile, venne avvicinato da un carabiniere
che gli comunicò la volontà del Re di proteggere la sua persona, e lo fece
salire su un’ambulanza. Si unirono il segretario De Cesare, un capitano, un
tenente, tre carabinieri e due agenti in borghese. Erano armati di mitra. Dopo
mezz’ora di tragitto, l’ambulanza si fermò ad una caserma dei carabinieri
circondata da sentinelle con fucili a baionetta innestata; dopo una sosta di
un’ora, venne portato alla caserma degli allievi carabinieri.
Ancora
convinto di essere sotto protezione, Mussolini ricevette la visita di alcuni
carabinieri che gli dimostravano simpatia, ma non toccò cibo. Di notte, arrivò
un messaggio di Badoglio che scriveva: “Il sottoscritto Capo del Governo tiene
a far sapere a V. E. che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è
unicamente dovuto al Vostro personale interesse essendo giunte da più parti
precise segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra Persona. Spiacente
di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il Vostro sicuro
accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare. Il
Capo del Governo: Maresciallo d’Italia Badoglio”.
Implicitamente,
si voleva rassicurare Mussolini che il regime continuava, dato che Badoglio ne
faceva parte, avendone anche ricoperto ruoli importanti, allo stesso tempo rassicurando
che la parola del Re veniva mantenuta.
All’una
di notte del 26 luglio, Mussolini rispose al Maresciallo, dopo averlo
ringraziato, che l’unica residenza di cui poteva disporre era la Rocca delle
Caminate, dove era disposto a trasferirsi anche immediatamente. Assicurava
anche, in nome della collaborazione avuta precedentemente, che non avrebbe
posto al lavoro di governo di Badoglio, alcuna difficoltà.
Aggiunse
che era contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati
tedeschi, riconoscendo il grave ruolo che Badoglio aveva assunto per ordine e
in nome del Re “del quale durante 21 anni sono stato leale servitore e tale
rimango”. Al Re non mandò alcuna missiva.
Forse
ingenuamente, Mussolini credeva che la politica di Badoglio non sarebbe
cambiata, sia per quanto riguardava la politica interna, mantenendo il fascismo,
sia con gli alleati tedeschi contro gli anglo-americani. La partenza che
sembrava sempre imminente, tardò fino al 27 luglio, quando un carabiniere, dopo
le 20, comunicò all’oramai ex Duce che
dovevano partire.
Accompagnato
da alcuni ufficiali, Mussolini era sempre convinto di essere portato a Rocca
delle Caminate, invece, da uno spiraglio del finestrino dell’auto, vide che la
direzione non era verso la Flaminia, ma verso l’Appia. Soltanto all’imbocco
della strada per Albano chiese dove stessero andando.
La
risposta l’ebbe da colui che era stato comandato di accompagnarlo, il generale
Polito, diventato generale da ispettore di Polizia per equiparazione di grado.
Era una vecchia conoscenza, noto per avere arrestato a Campione Cesare Rossi e
aver sgominato la banda Pintor in Sardegna, e tanti altri aneddoti raccontò a
Benito durante il viaggio, che evidentemente aveva altra meta dall’immaginata.
Mussolini, infatti, era stato inviato all’isola di Ponza, passando da Gaeta e
dal Molo Ciano, quasi un’ironia della sorte. Dal molo, l’ammiraglio Maugeri
accompagnò l’illustre ospite alla corvetta “Persefone” che salpò all’alba.
*Alessia Biasiolo, commendatore, Federazione Provinciale di brescia del Nastro Azzurro