DIBATTITI
Ten. cpl. Art. Pe. Sergio
Benedetto Sabetta
Al momento
dell’Unità nella Valle vi era una industria della lana che forniva lavoro a
circa 12.000 persone, di cui 7.000 nella sola Arpino, una industria che
risaliva al periodo romano come dimostrato dal fatto che il padre di Marco
Tullio Cicerone era interessato alla produzione dei panno di lana.
Altre
industrie riguardavano la produzione di carta e cartone, il cui centro era ad
Isola del Liri, dove la cartiera del conte Lefevre dava lavoro a circa 500 operai,
inoltre a Sora ed Arpino vi erano concerie di pelli ed una fabbrica di
pergamene per la rilegatura dei libri.
Una notevole
importanza rivestivano anche le miniere di ferro, manganese, caolinite, carbon
fossile, alabastro e pietra idroclorica, le miniere di ferro nella Val di
Comino erano gestite direttamente dallo Stato e la produzione era tale che il
governo delle Due Sicilie decise di costituire un altoforno ad Atina.
Francesco
Saverio Nitti, quale economista oltre che politico, osservò che al momento
dell’Unità vi erano in tutta Italia riserve aurifere per 668 milioni di lire,
di queste 443 milioni ( 66,3 %) provenivano dal regno delle Due Sicilie, 8
milioni (1,1%) dalla Lombardia e 27 milioni (4%) dal regno di Sardegna.
L’eliminazione
delle barriere protezionistiche determinò un tracollo dell’economia, con la
riduzione degli operai dell’industria laniera a 1.482 unità e la chiusura
dell’altoforno di Atina.
Oltre
all’assorbimento delle riserve auree aumentò la pressione fiscale per ripianare
le spese di guerra e finanziare le infrastrutture, da lire 16,06 – 17,28 nel
1857/58 si passò a lire 35,99 nel 1867, un carco fiscale più che raddoppiato.
Come si può
ben intuire la ricaduta avvenne soprattutto sulle classi più povere, a questo
deve aggiungersi l’introduzione del servizio militare obbligatorio della durata
di vari anni che sottraeva braccia e forza lavoro proprio alle classi più
disagiate, oltre all’eliminazione della “manomorta” e delle terre pubbliche
adibite a “uso civico” , su cui potere esercitare il pascolo e il legnatico,
vendute alla nascente nuova classe borghese.
La risposta
fu il brigantaggio, qui favorito dal confine con lo Stato Pontificio entro cui
rifugiarsi e rifornirsi.
Nel novembre
1860 gli ultimi reparti borbonici abbandonarono il territorio, superata
l’incertezza del breve interregno, ben presto già nel 1861 si formò nella Valle
del Liri la prima banda armata con a capo il sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone,
che assaltò e prese Isoletta e San Giovanni Incarico nel novembre dello stesso
anno.
Il bersaglio
principale delle bande erano i reparti dell’esercito sardo numerosi nella
Valle, essendo a ridosso del confine con lo Strato Pontificio.
Se nei primi
tempi vi era una forte connotazione politica, favorita anche economicamente
dagli emissari borbonici, successivamente acquisì sempre più una valenza
puramente sociale di rivolta contadina contro una nascente borghesia agraria,
circostanza che portò a violenze contro la classe dei proprietari terrieri.
Ad Arce,
come in altri comuni vicini, la violenza non fu organizzata in gruppi ma da
singoli elementi riuniti tra loro occasionalmente, a questi si affiancavano i “manutengoli”,
ossia coloro che fornivano aiuto e appoggio ai “briganti”.
Le bande
erano rafforzate da coloro che ricevuta la cartolina precetto si gettavano alla
macchia, divenendo “disertori”.
La borghesia
in reazione al brigantaggio della classa contadina e bracciantile si organizzò
in Guardia Nazionale, in luogo della disciolta Guardia Urbana borbonica, finché
con decreto reale in data 11/1/1863 fu disposto lo scioglimento di questo corpo
di polizia volontaria, considerandola non adeguatamene disciplinata e sicura.
Le cose
cambiarono in parte nel 1865 quando, a seguito di un trattato firmato tra lo
Stato Italiano e lo Stato Pontificio, in quest’ultimo non venne più concesso
asilo ai rivoltosi e disertori dell’ex regno delle Due Sicilie.
A seguito di
questo accordo il 17/10/1866 fu arrestato dalle guardie doganali il brigante
Luigi Grossi di Gaetano, inseguito dai militari papalini che intendevano
catturarlo “vivo o morto”.
Nel 1870,
con la riunione dello Stato Pontificio all’Italia, venne meno la possibilità
del rifugio oltre ad una ulteriore fonte di reddito data dal contrabbando, si
deve tuttavia segnalare l’istituzione a Fontana Liri del polverificio militare
che diede lavoro nella Valle e in cui lavorò anche mio nonno Bernardo reduce
quale bersagliere dalla Grande Guerra come invalido.
In ricordo dei piccoli
agricoltori, quale la mia famiglia paterna, che all’epoca repubblicana di “Roma
quadrata” costituì l’ossatura delle regioni e nel Regno italiano i soldati del
re nelle due Guerre Mondiali.
Cronaca dell’assalto a
Isoletta e San Giovanni Incarico
Interessante è la cronaca dell’assalto a Isoletta e San Giovanni Incarico
avvenuto l’11/11/1861 da parte della banda capeggiata da Luigi Alonzi detto
Chiavone.
La sera del
9/11/1861 la banda scese dai monti dove era rifugiata per attaccare le truppe
piemontesi stanziate lungo il confine con lo Stato Pontificio.
Giunti
presso la stazione di Ceprano si imbatterono in circa 200 manovali che
lavoravano alla costruzione della tratta ferroviaria Roccasecca – Ceprano,
questi si unirono alla banda che raggiunse quindi la consistenza di oltre 400
unità, circostanza che dimostra la simpatia goduta dagli insorti.
Le località
che vennero attaccate non erano casuali se si considera che nel settembre 1860,
pochi giorni dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, a Isoletta vi era stata una
manifestazione popolare filo borbonica.
La banda
diede l’assalto al castello di Isoletta presidiato da 18 soldati piemontesi al
comando del Serg. Eracliano Cobelli, nello scontro morirono 8 soldati regi e 4
insorti, in restanti 10 soldati piemontesi si fecero largo alla baionetta fino
a San Giovanni Incarico, dove arrivarono ance parte della banda che si diede al
saccheggio delle abitazioni di persone facoltose.
A reprimere
la rivolta da Pico venne una compagnia del 43 reggimento Fanteria al comando
del Capitano Cesare Gamberini, a cui si unì la Guardia Nazionale di Arce.
Nello
scontro che ne seguì morì 1 solo soldato piemontese e ben 57 insorti, di cui,
secondo la testimonianza dell’ufficiale legittimista Zimmermann, 15-20 in combattimento
i restanti catturati e fucilati frettolosamente alla schiena nella piazza di
San Giovanni Incarico.
Fra questi
ultimi vi fu anche il marchese Alfredo De Trazégnies, un giovane trentenne
belga, già ufficiale dell’esercito belga con il grado di Maggiore, unitosi da
pochi giorni alla banda di Chiavone, ritenendo suo dovere combattere quale
legittimista per il ritorno di Francesco II sul trono di Napoli.
Il nobile
belga riteneva doversi rispettare le regole di guerra sui prigionieri, così
mentre cercava di dire qualcosa all’ufficiale che comandava il plotone
schierato alle sue spalle una pallottola lo centrò alla testa, non aveva capoto
che per i Piemontesi non si trattava di una guerra regolare ma di una semplice
repressione.
Nelle sue
tasche fu ritrovato il ritratto di una giovane nobildonna con una ciocca di
capelli ed una tenera lettera della sorella Erminia, letta dal Capitano
piemontese Alessandro Bianco di Saint – Jorioz,
questi scrisse che questa lettera “induceva
al pianto, tanto era affettuosa, amorevole e gentile”, del De Trezégnies
disse che era “letterato, pittore, poeta”
e che “i suoi versi, i suoi scritti
avevano sempre l’impronta di un’anima leale, di un cuore ben fatto”.
Quindici
giorni dopo dallo Stato Pontificio venne una delegazione di illustri personaggi
francesi per la restituzione delle spoglie dello sfortunato Marchese, che nel
frattempo era stato seppellito in una fossa comune.
Nella
restituzione del corpo si sfiorò l’incidente diplomatico, in quanto nel
documento ufficiale di consegna il Maggiore Salvini impose l’uso del termine di
“brigante”.
Il corpo
venne tumulato a Roma nella chiesa di S. Gioacchino e S. Anna, nel corso del
ritorno i delegati videro i corpi
lasciati nella strada di proposito insepolti, quale monito, di 11 insorti
sparati alla nuca con un colpo di fucile.
Recentemente
durante i lavori di scavo di una galleria ferroviaria sono stati ritrovate le
ossa di alcuni uomini in una fossa comune, si pensa possano essere i resti dei
giustiziati durante la rivolta.
Nella
ferocia di questi fatti vi fu anche un
di umanità, quando un certo Antonio Penna alla testa di otto briganti assaltò
la casa del farmacista Ottavio Tasciotti, ma riconosciuta in sua moglie una
compaesana la cui famiglia aveva tanto beneficiato la propria, chiese scusa
alla signora per il disturbo e lo spavento datole e si allontanò senza
depredare o danneggiare alcunché.
Bibliografia
·
P.
Corradini, … di Arce in Terra di Lavoro …, Vol. I e II, Arce 2004;
·
Corriere
del Sud Lazio, pag. 29 del 17 /11/2001;
·
La
Voce , A IX n.8, pag. 3 del 12/2001;
·
A.
Capone ( a cura di), La prima guerra italiana, Roma Viella 2023;
·
C.
Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860 -1870,
Bari Laterza 2019.
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