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martedì 28 maggio 2024

La Valle del Liri e il brigantaggio al momento dell’Unità d’Italia

 DIBATTITI


Ten. cpl. Art. Pe.  Sergio  Benedetto Sabetta

 

            Al momento dell’Unità nella Valle vi era una industria della lana che forniva lavoro a circa 12.000 persone, di cui 7.000 nella sola Arpino, una industria che risaliva al periodo romano come dimostrato dal fatto che il padre di Marco Tullio Cicerone era interessato alla produzione dei panno di lana.

            Altre industrie riguardavano la produzione di carta e cartone, il cui centro era ad Isola del Liri, dove la cartiera del conte Lefevre dava lavoro a circa 500 operai, inoltre a Sora ed Arpino vi erano concerie di pelli ed una fabbrica di pergamene per la rilegatura dei libri.

            Una notevole importanza rivestivano anche le miniere di ferro, manganese, caolinite, carbon fossile, alabastro e pietra idroclorica, le miniere di ferro nella Val di Comino erano gestite direttamente dallo Stato e la produzione era tale che il governo delle Due Sicilie decise di costituire un altoforno ad Atina.

            Francesco Saverio Nitti, quale economista oltre che politico, osservò che al momento dell’Unità vi erano in tutta Italia riserve aurifere per 668 milioni di lire, di queste 443 milioni ( 66,3 %) provenivano dal regno delle Due Sicilie, 8 milioni (1,1%) dalla Lombardia e 27 milioni (4%) dal regno di Sardegna.

            L’eliminazione delle barriere protezionistiche determinò un tracollo dell’economia, con la riduzione degli operai dell’industria laniera a 1.482 unità e la chiusura dell’altoforno di Atina.

            Oltre all’assorbimento delle riserve auree aumentò la pressione fiscale per ripianare le spese di guerra e finanziare le infrastrutture, da lire 16,06 – 17,28 nel 1857/58 si passò a lire 35,99 nel 1867, un carco fiscale più che raddoppiato.

            Come si può ben intuire la ricaduta avvenne soprattutto sulle classi più povere, a questo deve aggiungersi l’introduzione del servizio militare obbligatorio della durata di vari anni che sottraeva braccia e forza lavoro proprio alle classi più disagiate, oltre all’eliminazione della “manomorta” e delle terre pubbliche adibite a “uso civico” , su cui potere esercitare il pascolo e il legnatico, vendute alla nascente nuova classe borghese.

            La risposta fu il brigantaggio, qui favorito dal confine con lo Stato Pontificio entro cui rifugiarsi e rifornirsi.

            Nel novembre 1860 gli ultimi reparti borbonici abbandonarono il territorio, superata l’incertezza del breve interregno,   ben presto già nel 1861 si formò nella Valle del Liri la prima banda armata con a capo il sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone, che assaltò e prese Isoletta e San Giovanni Incarico nel novembre dello stesso anno.

            Il bersaglio principale delle bande erano i reparti dell’esercito sardo numerosi nella Valle, essendo a ridosso del confine con lo Strato Pontificio.

            Se nei primi tempi vi era una forte connotazione politica, favorita anche economicamente dagli emissari borbonici, successivamente acquisì sempre più una valenza puramente sociale di rivolta contadina contro una nascente borghesia agraria, circostanza che portò a violenze contro la classe dei proprietari terrieri.

            Ad Arce, come in altri comuni vicini, la violenza non fu organizzata in gruppi ma da singoli elementi riuniti tra loro occasionalmente, a questi si affiancavano i “manutengoli”, ossia coloro che fornivano aiuto e appoggio ai “briganti”.

            Le bande erano rafforzate da coloro che ricevuta la cartolina precetto si gettavano alla macchia, divenendo “disertori”.

            La borghesia in reazione al brigantaggio della classa contadina e bracciantile si organizzò in Guardia Nazionale, in luogo della disciolta Guardia Urbana borbonica, finché con decreto reale in data 11/1/1863 fu disposto lo scioglimento di questo corpo di polizia volontaria, considerandola non adeguatamene disciplinata e sicura.

            Le cose cambiarono in parte nel 1865 quando, a seguito di un trattato firmato tra lo Stato Italiano e lo Stato Pontificio, in quest’ultimo non venne più concesso asilo ai rivoltosi e disertori dell’ex regno delle Due Sicilie.

            A seguito di questo accordo il 17/10/1866 fu arrestato dalle guardie doganali il brigante Luigi Grossi di Gaetano, inseguito dai militari papalini che intendevano catturarlo “vivo o morto”.

            Nel 1870, con la riunione dello Stato Pontificio all’Italia, venne meno la possibilità del rifugio oltre ad una ulteriore fonte di reddito data dal contrabbando, si deve tuttavia segnalare l’istituzione a Fontana Liri del polverificio militare che diede lavoro nella Valle e in cui lavorò anche mio nonno Bernardo reduce quale bersagliere dalla Grande Guerra come invalido.

In ricordo dei piccoli agricoltori, quale la mia famiglia paterna, che all’epoca repubblicana di “Roma quadrata” costituì l’ossatura delle regioni e nel Regno italiano i soldati del re nelle due Guerre Mondiali.

 

Cronaca dell’assalto a Isoletta e San Giovanni Incarico

            Interessante è la cronaca dell’assalto a Isoletta e San Giovanni Incarico avvenuto l’11/11/1861 da parte della banda capeggiata da Luigi Alonzi detto Chiavone.

            La sera del 9/11/1861 la banda scese dai monti dove era rifugiata per attaccare le truppe piemontesi stanziate lungo il confine con lo Stato Pontificio.

            Giunti presso la stazione di Ceprano si imbatterono in circa 200 manovali che lavoravano alla costruzione della tratta ferroviaria Roccasecca – Ceprano, questi si unirono alla banda che raggiunse quindi la consistenza di oltre 400 unità, circostanza che dimostra la simpatia goduta dagli insorti.

            Le località che vennero attaccate non erano casuali se si considera che nel settembre 1860, pochi giorni dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, a Isoletta vi era stata una manifestazione popolare filo borbonica.

            La banda diede l’assalto al castello di Isoletta presidiato da 18 soldati piemontesi al comando del Serg. Eracliano Cobelli, nello scontro morirono 8 soldati regi e 4 insorti, in restanti 10 soldati piemontesi si fecero largo alla baionetta fino a San Giovanni Incarico, dove arrivarono ance parte della banda che si diede al saccheggio delle abitazioni di persone facoltose.

            A reprimere la rivolta da Pico venne una compagnia del 43 reggimento Fanteria al comando del Capitano Cesare Gamberini, a cui si unì la Guardia Nazionale di Arce.

            Nello scontro che ne seguì morì 1 solo soldato piemontese e ben 57 insorti, di cui, secondo la testimonianza dell’ufficiale legittimista Zimmermann, 15-20 in combattimento i restanti catturati e fucilati frettolosamente alla schiena nella piazza di San Giovanni Incarico.

            Fra questi ultimi vi fu anche il marchese Alfredo De Trazégnies, un giovane trentenne belga, già ufficiale dell’esercito belga con il grado di Maggiore, unitosi da pochi giorni alla banda di Chiavone, ritenendo suo dovere combattere quale legittimista per il ritorno di Francesco II sul trono di Napoli.

            Il nobile belga riteneva doversi rispettare le regole di guerra sui prigionieri, così mentre cercava di dire qualcosa all’ufficiale che comandava il plotone schierato alle sue spalle una pallottola lo centrò alla testa, non aveva capoto che per i Piemontesi non si trattava di una guerra regolare ma di una semplice repressione.

            Nelle sue tasche fu ritrovato il ritratto di una giovane nobildonna con una ciocca di capelli ed una tenera lettera della sorella Erminia, letta dal Capitano piemontese Alessandro Bianco di Saint – Jorioz,  questi scrisse che questa lettera “induceva al pianto, tanto era affettuosa, amorevole e gentile”, del De Trezégnies disse che era “letterato, pittore, poeta” e che “i suoi versi, i suoi scritti avevano sempre l’impronta di un’anima leale, di un cuore ben fatto”.

            Quindici giorni dopo dallo Stato Pontificio venne una delegazione di illustri personaggi francesi per la restituzione delle spoglie dello sfortunato Marchese, che nel frattempo era stato seppellito in una fossa comune.

            Nella restituzione del corpo si sfiorò l’incidente diplomatico, in quanto nel documento ufficiale di consegna il Maggiore Salvini impose l’uso del termine di “brigante”.

            Il corpo venne tumulato a Roma nella chiesa di S. Gioacchino e S. Anna, nel corso del ritorno  i delegati videro i corpi lasciati nella strada di proposito insepolti, quale monito, di 11 insorti sparati alla nuca con un colpo di fucile.

            Recentemente durante i lavori di scavo di una galleria ferroviaria sono stati ritrovate le ossa di alcuni uomini in una fossa comune, si pensa possano essere i resti dei giustiziati durante la rivolta.

            Nella ferocia  di questi fatti vi fu anche un di umanità, quando un certo Antonio Penna alla testa di otto briganti assaltò la casa del farmacista Ottavio Tasciotti, ma riconosciuta in sua moglie una compaesana la cui famiglia aveva tanto beneficiato la propria, chiese scusa alla signora per il disturbo e lo spavento datole e si allontanò senza depredare o danneggiare alcunché.

 

Bibliografia

·        P. Corradini, … di Arce in Terra di Lavoro …, Vol. I e II, Arce 2004;

·        Corriere del Sud Lazio, pag. 29 del 17 /11/2001;

·        La Voce , A IX n.8, pag. 3 del 12/2001;

·        A. Capone ( a cura di), La prima guerra italiana, Roma Viella 2023;

·        C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860 -1870, Bari Laterza 2019.

 

           

 


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