Cerca nel blog

lunedì 26 giugno 2017

L'Ideologia politica dell'Islam

GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE


di
ELEONORA PALONE*
Il mondo musulmano oggi vive una profonda crisi delle istituzioni politiche e non solo, il modello di stato islamico, realizzato ai tempi del Profeta Muhammad, nei secoli successivi è stato oggetto di una riflessione teorica e politica che ha portato anche a interpretazioni distorte con l'esperienza storica concreta. Una distorsione dunque nel lavoro politico che invece di proiettarsi nel futuro ha preferito ripiegarsi sul passato. Va sottolineato che l'idea odierna dello stato islamico è un' idea limite,  non è un qualcosa di realizzabile ma qualcosa verso cui tendere, proiettarsi. Lo stato islamico è esistito solo nel passato, non nel presente e meno che mai nel futuro. Per stato islamico esistito solo nel passato si intende ovviamente solo quello realizzato all'epoca del Profeta Muhammad, e per i sunniti possiamo allungare questo periodo anche comprendendo il periodo dei 4 califfi, periodo che va dalla morte del Profeta nel 632 al 661, quando Ali venne assassinato. Certo se si considera che tre califfi su quattro sono stati assassinati (Omar, Othman e Ali) sorgono dubbi sull'effettiva realizzazione dello stato islamico, di un organismo perfetto ispirato a Dio. La fase dello stato islamico del Profeta a capo della comunità di Medina durò 10 anni, dal 622 l'anno dell'Hegira al 632. Muhammad diresse la comunità come un capo beduino e non come un monarca o capo di stato. Muhammad non è neanche un papa ma essendo il ricettore della Rivelazione se ne deduce che sia Dio stesso a suggerirgli come gestire la società. L'idea dello stato islamico recuperata oggi affermando la necessità di riprodurre lo stato islamico del Profeta significa cancellare tutto lo spazio utopico della teorizzazione del modello islamico di stato, con la consapevolezza che non può esistere tale modello, neppure sotto forma utopica.

L'obiettivo di questa analisi è proprio quello di analizzare il ruolo politico nella riflessione religiosa dell'Islam, con la speranza di delineare una fisionomia di estrema complessità di questa religione affinché possa sfuggire da banalizzazioni e da generalizzazioni. I fatti odierni dall'attentato dell'11 settembre 2001 che ha sicuramente aperto una nuova fase storica, alle guerre che ne sono seguite, dalla diffusione di Al-Qaeda all'incombente minaccia dell'ISIS, il sedicente Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, hanno proiettato l'Islam al centro dell'attenzione pubblica, soprattutto di coloro che non si sono mai interessati a questo argomento con il risultato di una deformazione di questa complessa religione. Questa analisi intende approfondire dal punto di vista teoretico-filosofico il significato del politico nel quadro dell'ideologia islamica. L'Islam ha una dimensione del sacro che non può non aver ricadute su quella sociale e politica, con ciò però non significa che la religione diriga il politico, anzi, la storia islamica ha testimoniato soprattutto una strumentalizzazione della religione da parte del potere politico. Il giure islamico si secolarizza nel contatto stesso con la realtà, Dio non ha mai governato in maniera diretta, sono sempre gli uomini che lo hanno fatto in suo nome alla luce delle loro necessità e delle loro convenienze[1]. Il Cristianesimo originariamente è stato una religione teologico-politica e solo più tardi si è separato dalla sfera pubblica: se guardiamo però alla pratica della gestione del potere e dei rapporti tra politica e religione nell'età contemporanea, le cose stanno in modo alquanto diverso. È sufficiente osservare i simboli dell'azione politica che provengono dalla maggiore democrazia del mondo: gli Stati Uniti d'America. Addirittura il denaro negli Stati Uniti rimanda a Dio, In God We Trust è stampato sulle banconote, ma tutto il linguaggio politico è intriso di religione. L'ex presidente George W. Bush si è detto investito da una missione divina per guidare l'America e portare pace e libertà nel mondo. È certamente ironico che Bush abbia voluto combattere il fondamentalismo religioso islamico con il richiamo fondamentalista ad un'altra religione. Gli Stati Uniti sono una nazione benedetta da Dio e la società americana fortemente puritana, nutre un senso di esportazione missionario dei propri valori che porta a concepire la violenza come redentrice, la guerra contro l'Iraq ne rappresenta certo un esempio. D'altro canto in democrazie dove la maggioranza della popolazione è cattolica come la Spagna e l'Italia o l'America Latina, la Chiesa è tutt'altro che neutrale: l'obiezione di coscienza per esempio su aborto e divorzio, è il diritto per i cattolici di disobbedire alle leggi dello stato se contrastano con le loro convinzioni religiose. Per non considerare i partiti politici che in Italia e Germania si sono richiamati alla religione. Il Corano e la vita del Profeta dimostrano che la rivelazione di Mecca era incentrata su temi religiosi, la svolta politica e anche militare si ha solo con l'Hegira (cioè l'emigrazione) a Medina, con la nascita della Umma in quanto comunità etico-politica e con l'avvio delle guerre contro i pagani qurayshiti, cioè la tribù araba stanziata alla Mecca ai tempi del Profeta di cui egli stesso ne era originario.
Anche se apparentemente vi è una connessione quasi naturale tra religione e politica nel mondo musulmano, proprio per questo verrà analizzato l'approccio teologico alla politica e politico alla religione nell'Islam sullo sfondo dello sviluppo storico dell'Islam stesso: teocentrismo significa che Dio è il perno centrale attorno a cui ruota la vita del cosmo e la vita umana, Dio è l'organizzazione dell'universo perché ne ha conferito le leggi, Dio è l'organizzazione della società dal punto di vista morale attraverso la rivelazione e Dio costituisce una costante e continua presenza nella vita spirituale del credente[2]. Nell'Islam (per lo meno in quello sunnita) non si può parlare di teocrazia per almeno due ragioni fondamentali, nell'Islam sunnita di gran lunga maggioritario nel mondo musulmano non esiste Chiesa e magistero centrale, non esiste un clero e non vi è nessuna autorità centrale, quindi risulta problematico parlare di teocrazia. In secondo luogo non esiste dogma ma opinione giuridica (fatwà), e tutte le opinioni giuridiche in quanto opinioni sono equipollenti, dialettiche e nessuna dotata di autorità sufficiente per trasformarsi in legge universale. L'unico dogma o principio religioso cui è obbligatorio portare assenso, si limita alla professione di fede dell'Unicità di Dio e della veridicità della profezia di Muhammad (la ilah illa Allah wa Muhammad rasul Allah). Teocrazia certo significa che lo stato è subordinato alla religione, ma nell'Islam parlare di subordinazione tra i due ambiti è fuorviante poiché i due ambiti sono considerati in un rapporto di integrazione, non certo di opposizione. Il teocentrismo islamico piuttosto implica che Dio, e non l'uomo o una qualsiasi istituzione umana, pur universalistica come una Chiesa, si collochi al centro di ogni realtà antropologica e sociale[3].Quindi si può parlare di teocentrismo islamico ma non di teocrazia. Naturalmente nel caso dello sciismo in parte è diverso, esiste una concezione gerarchica, vi è la dottrina dell'imam e del ta‘lim o insegnamento di autorità, questo implica l'esistenza di una casta di interpreti privilegiati della Legge che prefigurano un clero.
L'Islam pur essendosi sviluppato secondo dei canoni politici, vanta una priorità in quanto costituisce l'asse intorno al quale si organizza l'intero mondo musulmano, nonostante ciò la politica conserva un'autonomia. È il problema della cosiddetta “siyasa shar‘iya” cioè della “politica secondo la Legge religiosa”, siyasa sta per politica che attiene al governo e si trova oltre il campo di intervento dei giudici (qadi), è vero che la politica deve ispirarsi alla Shari‘a, che è la Legge sacra islamica, ma non ripeterla. La Shari‘a costituisce l'orizzonte di riferimento della politica che però conserva una propria autonomia. Osservazione che porta alla conclusione che la politica nel mondo musulmano pur dipendendo dalla religione, resta una realtà laica. Nei testi di Ibn Taymiyya, il giurista e teologo arabo hanbalita che ha vissuto nell'attuale Siria ed è morto a Damasco nel 1328, si parla di una politica divina e non di religione nella politica, politica divina significa che l'azione politica avviene nella sacralità e non che vi sia un'ingerenza della dimensione sacrale nella politica.
Il diritto nell'Islam è di origine religiosa, la Shari‘a, tuttavia sul piano dei fondamenti (usul) ma non sul piano dell'elaborazione positiva e pratica del diritto, cioè nei fiqh o diritto musulmano. La Shari‘a frutto della rivelazione si limita a stabilire i principi, è la via (questo è il significato etimologico del termine) al comportamento e alla norma, si colloca dunque sul piano dell'astrazione teorica. La Shari‘a non va intesa come un codice, un comandamento ma piuttosto come un sistema di valori che trascende i luoghi ed i tempi, è la bussola che ogni musulmano possiede nel suo cuore e nella sua memoria. Il fiqh è l'autentico diritto islamico nelle sue varie articolazioni (pubblico, privato, civile e penale), radicato nella società e nelle istituzioni, è cioè l'elaborazione giurisprudenziale avvenuta sulla base della Legge sacra islamica. La Shari‘a ha un carattere soggettivo poiché dipende dalla volontà di Dio che l'ha formulata, il fiqh invece ha un carattere oggettivo poiché calato nella pratica quotidiana del giudicare e dell'amministrare la giustizia. Certo la Shari‘a è parte integrante del fiqh che la ingloba e quindi è condizionato da quest'ultima, ma la Shari‘a può coprire solo l'ambito della morale. Durante l'assestamento del diritto islamico, nel corso della dinastia Abbaside nell'VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le interpretazioni del diritto sacro venissero incanalate in un'unica direzione. Nacquero così le 4 scuole ortodosse sunnite e altre scuole eretiche. Ancora oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole, dimostrando che non è unitario. Le 4 scuole sunnite si differenziano tra loro sia per gli strumenti ermeneutici utilizzati per l'interpretazione della Legge Coranica, sia per la ritualità adottata, e si dividono in:
-La scuola Hanafita, fondata da Abu Hanifa (morto nel 767) di origine iraniana. Scuola che privilegia il giudizio personale all'imitazione passiva, è la più liberale.
-La scuola Malikita, fondata da Malik Ibn Annas (morto nel 795), è una delle più rigorose, rappresenta la tendenza giurisprudenziale più conservatrice. Questa scuola si è diffusa soprattutto nel Maghreb.
-La scuola Shafiita, fondata dall'Imam Shafi'i (morto nell'820), diffusa soprattutto in Indonesia, Siria, e Africa orientale, privilegia la Sunna e l'Ijma della communità.
-La scuola Hanbalita, fondata da Ibn Hanbal, è la più tradizionalista diffusa soprattutto in Arabia Saudita, segue quella Shafiita per quanto concerne il ragionamento giuridico, ma esige un rispetto ferreo della Sunna e del Corano. Invoca il ritorno alla purezza della lettera e propugna l'applicazione del modello idealizzato di Medina. La sua importanza divenne rilevante quando, nel XX secolo, si generò una comunione d'intenti tra hanbaliti e il movimento dei wahhabiti, tuttora dominante in Arabia Saudita. È una scuola che da un estremo rigore morale e richiama la purezza dell'Islam delle origini. Queste quattro scuole islamiche operarono l'estensione del diritto sacro sino alla caduta della dinastia degli Abbasidi, avvenuta nel 1258 con la conquista mongola di Bagdad. Da questo momento in poi non furono più possibili interpretazioni, vene chiusa la porta dello sforzo interpretativo, l'itjihad, e per i secoli successivi il diritto islamico restò immutabile anche se eterogeneo, rifacendosi a tutta l'elaborazione giurisprudenziale (fiqh) di questi secoli di interpretazione. Inoltre va tenuto presente che queste scuole si sono impegnate a seguire il Profeta nel modo migliore, ma non sono fonti in sé. L'unica fonte cui ogni musulmano deve ritornare è il Corano, e la Sunna per i sunniti mentre per gli sciiti è differente. Lo sciismo nacque da una profonda frattura politica della comunità, la fitna, ma determinò i propri principi solo un paio di secoli dopo, con la piena consapevolezza di costituire una fazione. Dunque si può definire lo sciismo come una forma di Islam rinnovato. Sunnismo e sciismo differiscono come in ambito cristiano differiscono cattolicesimo e calvinismo. Si rilevano comunque profonde differenze, la più importante è quella che attiene alla dottrina dell'imamato. Per imamato o califfato si intende la medesima funzione di guida, politica, religiosa ed un tempo della comunità. Sebbene anche i sunniti talvolta chiamino il califfo imam, questo termine assume caratteristiche fondamentali nello sciismo.  Bisogna ricordare che lo sciismo si ramificò in diverse confessioni, la teologia sciita si sviluppò lentamente dopo la morte di Ali e dei suoi figli che a loro volta divennero imam. Le principali confessioni dello sciismo sono:
-lo sciismo duodecimano o imamita, l'Iran è a tutt'oggi l'unico paese musulmano a maggioranza sciita imamita, anche se molti sciiti sono presenti in Iraq, in Libano e nei Paesi del Golfo, oltre che in India.
-lo sciismo isma‘ilita, nettamente minoritario, il suo apice fu all'epoca del califfato fatimide del Cairo.
-lo sciismo zaydismo, diffuso soprattutto nello Yemen, riconosce la superiorità di Ali ma ammette anche la legittimità dei regni di Abu Bakr e Umar[4].
Paul Walker ritiene che nello sciismo esista un'autorità suprema che per quanto stabilita da Dio responsabile di tutte le questioni religiose, dopo la morte del Profeta essendo venuta a mancare l'ultima interpretazione del messaggio divino, si avvertì la necessità di un individuo profeticamente ispirato poiché l'uomo da solo inevitabilmente sbaglia. L'imam occultato resterà celato fino alla fine del mondo, egli è vivo ma invisibile agli occhi degli uomini fino al giudizio finale. Egli è il Mahdì, il Messia. Lo sciismo fin dall'origine si presenta come un movimento di contestazione verso un'autorità fasulla e di recupero della giustizia originaria: Muhammad scelse Ali, e se questa scelta fosse stata rispettata dai compagni, sarebbero stati risparmiati infiniti dolori alla comunità, è il mito che si storicizza e diviene ideologia. Questo ovviamente implica una immagine utopica proiettata verso il futuro.
Il nodo centrale è che nell'Islam la Legge è rivelata, perlomeno nei suoi fondamenti essenziali, e non è frutto dell'elaborazione umana storica.
L'Islam è una religione che fa appello all'intelligenza, essa rifiuta di dotare la mente umana di poteri divini, come affidandole il compito della legislazione o sovranità, prerogative di Dio, tuttavia questo non implica cieca adesione alle obbligazioni legali. Il testo sacro dell'Islam, il Corano
 (letteralmente significa recitazione) si ritiene sia stato espresso da Dio (Allah), e che Muhammad lo abbia ricevuto dall'Arcangelo Gabriele. Si ritiene che il Corano non sia stato messo immediatamente per iscritto anche perché il Profeta probabilmente era analfabeta.  Ma egli assimilò perfettamente il Corano per grazia divina così da poterlo recitare ai suoi seguaci che a loro volta lo memorizzarono. Solo con il califfo Uthman fu messo per iscritto. La Sunna, termine che significa consuetudine, abitudine, costume e, in senso lato, codice di comportamento, è uno dei testi sacri dell'Islam che. dopo il Corano, costituisce la seconda fonte della Legge islamica, e con il testo sacro costituisce la Shari‘a. È stata codificata alcuni secoli dopo la morte del Profeta in base ai racconti tramandati di bocca in bocca da persone degne di fede. La Sunna è costituita dal complesso degli atti e detti del Profeta che sono stati trasmessi nei singoli hadith (racconti), la totalità degli hadith costituisce la Sunna, la raccolta dei comportamenti di Muhammad che sono esempi da seguire da parte della comunità. Dunque le fonti della Shari‘a sono quattro, la prima è il testo sacro del Corano a cui si aggiunge poi la Sunna, una raccolta di frasi, esempi e detti del Profeta la cui fonte principale sono appunto gli hadith, la terza fonte è la Ijma, il consenso della comunità islamica ed infine la Qiyas cioè il ragionamento analogico, consiste nell'applicazione per analogia del dettato del Corano e della Sunna. Accanto alle sacre scritture vi è un'immensa letteratura prodotta nei secoli dai dottori della comunità musulmana sunnita e sciita, i testi di fiqh (giurisprudenza), di kalam (teologia), di tasawwuf (mistica).
Ma si può davvero parlare della Legge di Dio che si impone, della Shari‘a che governa o è una legge umana che gli uomini hanno formulato facendo parlare Dio in loro vece?
La Shari‘a comprende precetti morali, riti ma è rivolta innanzitutto ad individuare la via che porta a Dio e alla sua soddisfazione, è una direzione etica, questo è il suo primo senso etimologico. La Legge religiosa è stata comunicata a tutti i popoli del Libro (ebrei e cristiani) ma è stata perfezionata con l'Islam. Poi vi è il fiqh che rappresenta l'estrarre dalle radici e dalle fonti le norme sharaitiche a cui il musulmano deve adempiere. All'interno dell'Islam non esiste un clero, non vi è Chiesa né dogma, quindi non vi è un'autorità docente centrale. Qualsiasi opinione dei vari giuristi può essere contestata dall'opinione di un altro giurista. Tale opinione, la fatwa, può essere valida solo all'interno di un determinato ambito, per esempio quello sciita quindi  nessun sunnita è tenuto ad applicare la legge di uno sciita e viceversa.
L'Islam non impone nessuna forma di governo, non importa se il sistema sia repubblicano o monarchico, capitalista o socialista, l'importante è che applichi le regole stabilite da Dio, i precetti della Shari‘a non si riferiscono al potere né al regime ma solamente alla religione islamica. L'Islam non è incompatibile con la democrazia, semplicemente una forma di governo islamica non implica la cittadinanza quanto piuttosto l'appartenenza alla comunità dei credenti e all'uguaglianza degli uomini tra se stessi e di fronte a Dio.
Nella società odierna i tradizionalisti sostengono che se si è musulmani non si può abbracciare la democrazia in quanto estranea alla cultura islamica. I regimi che derivano la propria legittimità dall'Islam, come per esempio l'Arabia Saudita, accusano i loro oppositori, che rivendicano democrazia, come miscredenti. Certo l'aspetto ironico è che in altri paesi arabi è l'opposizione stessa a impugnare la democrazia come il fondamento costituzionale, come per esempio è il caso della Tunisia ai tempi di Ben Ali. Bisogna riflettere perché l'Arabia Saudita che ha mosso mari e monti per comprare il sistema missilistico americano (AWACS) senta una necessità più forte di altri paesi musulmani di aderire all'Islam. Quello che è certo è che la chiamata all'Islam diffusasi negli ultimi decenni esprime diversi bisogni, non sempre arcaici e certamente non sempre di natura spirituale. Inoltre va sottolineato che la democrazia è arrivata nel mondo arabo, paradossalmente, tra i bagagli degli eserciti coloniali francesi e inglesi.
Bernard Lewis, specializzato in studi orientali, afferma che nella concezione musulmana tradizionale, lo stato non crea la legge ma è esso stesso creato e mantenuto dalla legge che ovviamente proviene da Dio, è amministrata e interpretata da chi ha competenze al riguardo. Il dovere del sovrano è difendere e sostenere, mantenere e rafforzare la legge, alla quale egli stesso è sottoposto come il più umile dei sudditi.
L'Islam realizza pienamente la giustizia in un equilibrio tra governanti e governati. La ribellione non è lecita a meno che il capo dello stato non ottemperi agli ordini di Dio. La legge obbliga ad osservare e realizzare il precetto coranico di ordinare il bene e proibire il male. Precetto che impegna i sudditi ad obbedire al loro sovrano, solo però se quest'ultimo rispetta le disposizione divine altrimenti la ribellione diviene lecita.
Bernard Lewis però giunge alla conclusione che ci siano verità incontrovertibili come che i musulmani odiano la modernità e che l'Islam non ha separato stato e chiesa, dimostrando un approccio falsamente scientifico e riduzionista. Considera la religione islamica come una sintesi culturale, un elemento onnicomprensivo che prescinde dall'economia, dalle dinamiche politiche e dalla sociologia dei popoli musulmani. Bernerd Lewis fa capire che l'Islam sia un'ideologia politica totalitaria, il suo ragionamento si avvale di molte generalizzazioni e dall'utilizzo parossistico della proprietà transitiva: gli islamici odiano l'America e quindi sono assimilabili a nazisti e comunisti che secondo Lewis non differiscono tra loro. Nel pensiero dell'autore cultura e civiltà vengono considerate impenetrabili e le giudica in base ad una scala di sviluppo determinata al cui apice c'è ovviamente un altrettanto monolitico Occidente. Egli arriva alla conclusione che l'unica salvezza per l'Islam, strutturalmente retrogrado, rimane l'assimilazione ai valori occidentali, tanto da sottolineare che in Medio Oriente ci siano persone che condividono i valori occidentali e che vorrebbero partecipare allo stile di vita occidentale e dunque la soluzione sarebbe: o i musulmani accettano le regole occidentali o ci sarà la resa dei conti[5]. Quella di Lewis è dunque una visione unitaria e semplicistica delle culture, altri studiosi hanno cercato di decomporre la schematizzazione binaria Islam e Occidente, per dimostrare il rapporto di compenetrazione che intercorre tra questi due elementi. Piuttosto che di opposizione tra Islam e Occidente si deve parlare di profonda interconnessione in cui dall'Occidente l'Islam si globalizza, investe il vissuto quotidiano dei paesi di immigrazione e innesca importanti feedback nei paesi d'origine. Una compenetrazione che, tuttavia, non alimenta solo forme pacifiche di ridiscussione identitaria, al contrario può far germinare i semi più perversi dell'occidentalizzazione. Il terrorismo odierno che si richiama all'Islam non è solo un sottoprodotto culturale occidentale ma in un certo qual modo è figlio dell'Occidente stesso. Teoria che trova conferma nell'identità di buona parte dei protagonisti degli attacchi terroristici recenti, se non sono nati quasi tutti in paesi occidentali sono però tutti cresciuti in Occidente. Individui che si sono avvicinati all'Islam radicale e violento in Occidente a partire da percorsi personalissimi di ribellione, il loro militantismo è frutto di una rottura che è assolutamente sociale più che religiosa, anzi spesso questi individui non hanno alcuna esperienza di militanza religiosa precedente. Il loro nichilismo è il risultato di un disagio esistenziale che deriva dal loro sradicamento. Una cosa fondamentale che è sfuggita a Bernard Lewis è che il militantismo islamico pericoloso con finalità terroristiche non ha raggiunto l'Occidente ma è nato in Occidente.
L'Islam molto spesso è stato utilizzato come strumento di controllo politico e sociale delle masse da parte delle classi dirigenti, l'Islam però è servito anche a mobilitare le masse, e questo è molto evidente in relazione al colonialismo. Probabilmente il principale motivo che spiega la grandiosa diffusione dell'Islam soprattutto nel mondo povero, in Africa o in Asia, risiede proprio nell'uso antimperialistico che si è fatto di questa religione fondamentalmente egualitaria. Nelle lotte anticoloniali, liberatorie e comunque potenzialmente difensive a garanzia della sopravvivenza della comunità si inserisce il concetto di jihad, interpretato come il sacrificio sulla via di Dio o come il martirio, analizzando lo stato della questione: il problema del jihad impropriamente tradotto come “guerra santa”, è un impegno sulla vita di Dio, è una lotta di difesa, ed a volte offesa, per la rivendicazione dei diritti di Dio e degli uomini, ma anche una lotta interiore per la propria purificazione. Infatti il grande teologo al Ghazali sostenne la distinzione tra il grande jihad cioè la lotta spirituale verso se stessi e le proprie inclinazioni malvagie, un combattimento etico proiettato a costruire la vera personalità del credente nei suoi obblighi religiosi verso Dio; e il piccolo jihad, quello militare combattuto in nome di Dio per difendersi dagli attacchi nemici o per propagandare la religione stessa. Il valore del piccolo jihad è decisamente inferiore agli occhi di Dio rispetto al grande jihad[6]. Quindi il jihad si distingue in militare e spirituale, anche il recarsi in pellegrinaggio o insegnare la religione può essere considerato un jihad. È importante sfumare i concetti, non vi è dubbio che il Corano sia inequivoco sulla liceità del combattimento. I versetti che seguono possono e hanno dato adito a diverse interpretazioni:
“E combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti (oppure: non aggredite), ché Dio non ama gli eccessi (gli aggressori). Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate e scacciateli di dove hanno scacciato voi, ché lo scandalo è peggio dell'uccidere. (…) Se però essi sospendono la battaglia, Iddio è indulgente e misericorde. Combatteteli dunque finché non ci sia più scandalo, e la religione sia quella di Dio; ma se cessano la lotta non ci sia più inimicizia che per gli iniqui”[7].
Spesso si asserisce che la guerra santa sia sanzionata dal Corano e che il termine con cui la si indichi sia appunto jihad. Il termine appare sotto questa forma precisa solo quattro volte nel Testo Sacro. Di seguito verranno tutte citate, proprio per evidenziare come in nessuna di esse sia possibile utilizzare inequivocabilmente la locuzione “guerra santa”. La prima è la numero 22,78 “Lottate per Dio un'autentica lotta (jihad). Egli vi ha prescelti e non ha messo per voi nella religione impedimenti, la religione del vostro padre Abramo”. Un altro passo è il 9,24 “Se i vostri padri e i vostri figli, i vostri fratelli e le vostre mogli, e la vostra tribù e i beni che avete acquistato e un commercio che temete possa andare in rovina, e le case che amate, vi sono più care di Dio e del suo Messaggero e della lotta (jihad) sulla via di Dio, allora aspettate finché Dio vi porterà il suo ordine distruttore”. In tutti e due i casi il termine in questione potrebbe intendere tranquillamente una lotta di tipo spirituale, non militare. La terza volta che compare il termine è nel 25,52 “Ma tu non obbedire ai miscredenti, ma combattili con esso in una guerra grande (jihad)”. Questo potrebbe intendersi come un jihad di propaganda, di persuasione e di predicazione, come sostiene anche il teologo salafita algerino Badis. Probabilmente il quarto passo potrebbe essere quello più vicino ad indicare un combattimento armato, ben lungi però dall'essere chiaro e inequivocabile. Il quarto passo è il numero 60,1 “Se voi uscite per un jihad sulla mia Via e per desiderio della mia soddisfazione, ma segretamente nutrite affetto per essi (i nemici), ebbene Io meglio conosco quel che voi celate e quel che voi palesate”. Dunque la versione di jihad come guerra santa è del tutto limitativa, poiché è essenzialmente uno sforzo, un impegno, morale e se necessario militare, sulla via di Dio.
Nell'era contemporanea è riemersa la tendenza, da parte di alcuni stati come Sudan, Arabia Saudita, Nigeria e Iran, di applicare letteralmente le pene coraniche, questo rappresenta senza dubbio una sfida per l'interpretazione. Nella società odierna, dove tanta importanza hanno i diritti umani, risulta difficile comprendere il taglio della mano per i ladri, o la severa fustigazione degli adulteri, attenzione non lapidazione, che questa non è sanzione coranica, ma fustigazione. Il Corano è un testo sacro che va contestualizzato nell'epoca in cui è stato rivelato, dove alcune pratiche barbariche erano del tutto legalizzate. In una prospettiva storica si può aggiungere che le severe norme del Corano erano indispensabili per reggere una società anarchica come quella beduina dei tempi del Profeta. La legge del taglione per esempio è presente anche nella Bibbia ebraica, dunque erano norme efficaci in società dove mancava un sistema giuridico analogo al diritto romano.
Per quanto riguarda il punto di vista linguistico la radice del termine jihad, jhd., indica il concetto di sforzo interiore che può condurre l'essere umano alla pienezza spirituale. E da questa radice deriva anche un altro termine fondamentale nel mondo islamico, itjihad: è un termine giuridico che indica la metodologia da seguire per la ricerca della verità, è la capacità dell'uomo di utilizzare i criteri della ragione umana per interpretare il linguaggio di Dio. Secondo alcuni dotti dell'Islam jihad deve essere considerato come il sesto pilastro della fede[8].
Negli ultimi vent'anni è comparso il suicidio del kamikaze, Termine preso in prestito dal giapponese, da un episodio della Seconda guerra mondiale, e le analogie di questo odierno terrorismo con l'attentato alla metro di Tokyo con il gas Sarin. Termine che sino ad allora era assolutamente sconosciuto all'Islam, sebbene il suicidio sia estraneo all'etica e alla dottrina islamica è entrato a far parte degli strumenti di lotta dello jihad. I primi furono alcuni componenti di Hezbollah, il Partito di Dio libanese, poi fu la volta di Hamas e così il termine kamikaze è entrato a far parte del lessico politico islamico. Ricordiamo però che qui si sta parlando di una lotta politica, non religiosa, rispetto a tutte le armi di Israele il palestinese risponde sacrificando se stesso perché non ha altro. Inoltre un hadith del Profeta afferma che chiunque uccida se stesso con un'arma di ferro, l'arma di ferro rimarrà nella sua mano, ed egli continuerà a pugnalare il suo ventre con essa eternamente nel fuoco dell'inferno, per sempre. Dunque tutti coloro che chiedono il rifugio di Dio dopo essersi fatti esplodere verranno accolti all'inferno.
Se si vuole comprendere come il suicidio sia apparso come categoria politica nell'Islam contemporaneo, è necessario partire dall'origine: i suicidi politici appaiono inizialmente nei gruppi sciiti filoiraniani, solo in un secondo tempo trovano seguito presso gruppi sunniti come Hamas. Storicamente lo sciismo si fonda sul martirio dei figli di Ali (Hasan e Hoseyn). Secondo gli sciiti il califfato fu usurpato dai sunniti, nella battaglia di Kerbela Hoseyn figlio di Ali fu decapitato ed i suoi partigiani massacrati. Questo episodio storico è alla base della coscienza martiriologica della cultura sciita. Dunque in questa ottica il suicidio, rinnovando la tragica esperienza di Kerbela, si trasforma in testimonianza. Hoseyn era stato avvisato da molti sul tradimento quasi certo degli abitanti di Kufa, e nonostante ciò, andò consapevolmente verso la morte. Quasi come fosse una reincarnazione di Dio, Hoseyn diviene l'agnello che s'immola sull'altare della giustizia, il martire che rifiuta il compromesso di accettare la sovranità di personaggi empi e nefasti. Così facendo Hoseyn si trasforma nel vincitore e l'impatto emotivo che la battaglia di Kerbela suscitò fu un'onda a lunghissimo raggio, i cui effetti perdurano sino ai giorni nostri.
All'interno del mondo islamico, inoltre,  le persone possono differire enormemente per altri aspetti quali i valori politici, sociali, economici, letterari e così via,  sostenitori della pace e i fautori della guerra possono appartenere alla stessa religione. Dovremmo accettare il fatto che la fede religiosa non determina da sola l'identità di un individuo. Non ci si può chiedere quale posizione abbia il musulmano su temi in cui storicamente i musulmani hanno avuto posizioni del tutto diverse. All'interno del mondo islamico la maggioranza delle persone è musulmana, quindi professano la stessa fede ma possono differire enormemente per altri aspetti, basta pensare per esempio alla grande differenza che intercorre tra una donna saudita tradizionalista e una donna turca di Istanbul senza hijab, questa differenza non è religiosa ma nello stile di vita adottato dalle due donne. Nel mondo musulmano esiste l' ijtihad, come prima sottolineato, l'interpretazione religiosa che consente una larghezza di vedute all'interno dell'Islam, un musulmano ha la libertà di scegliere  a quali valori dare priorità senza compromettere la propria fede. Ogni religione ha avuto spietati guerrieri e grandi campioni della pace fra i suoi fedeli, e invece di chiederci quale sia il vero credente e quale invece un semplice impostore, dovremmo accettare il fatto che la fede religiosa non può determinare in modo univoco tutte le decisioni che dobbiamo prendere nella nostra vita, incluse le nostre priorità politiche e sociali e il comportamento e le azioni che ne conseguono[9].
L'Islam resta una variabile aperta e solo il futuro potrà dirci in quale direzione esso sia incamminato, in ogni caso, l'approfondimento delle tematiche politiche fornisce un aiuto non indifferente per sfuggire ai pregiudizi e anche all'ignoranza che troppo frequentemente ci consegnano dell'Islam una rappresentazione distorta.

* Eleonora Palone,  Collaboratrice CESVAM

Bibliografia:
Allam K. F., L'Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002
Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, Bologna, il Mulino,  2008
Campanini M., Il Corano e la sua interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2004
Campanini M., Islam e Politica, Bologna, il Mulino, 2015
Lewis B., Faith and Power: Religion and Politics in the Middle East, USA, Oxford University Press, 2010
Mandel khan G. (a cura di), Il Corano
Sen A., Identità e violenza, Bari, Editori Laterza, 2008
Vanzan A., Gli sciiti, Bologna, Il Mulino,  2008








[1] Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, Bologna, il Mulino,  2008, p 9
[2] Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, cit. p 21
[3] Campanini M., Islam e Politica, Bologna, il Mulino, 2015, p 27-28
[4] Vanzan A., Gli sciiti, Bologna, Il Mulino,  2008, p 42
[5] Lewis B., Faith and Power: Religion and Politics in the Middle East, USA, Oxford University Press, 2010, p 85
[6] Campanini M., Il Corano e la sua interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2004, pp 54-55
[7] Mandel khan G. (a cura di), Il Corano, cit. p 30,Sura 2: 190-193
[8] Allam K. F., L'Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002, p 125
[9] Sen A., Identità e violenza, Bari, Editori Laterza, 2008, cit. pp 67-68

Nessun commento:

Posta un commento