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lunedì 12 febbraio 2018

Riflessioni sul Secondo Risorgimento d'Italia

DIBATTITI


Qualche parola sul Secondo Risorgimento
di
Franco Finzi*

Il Risorgimento l’ho studiato unicamente a scuola, e non l’ho più ripassato (come là si diceva) quindi non posso saperne più di voi.
La sola notizia appresa sull’unità d’Italia successivamente, la devo al past president del Rotary Club di Venezia Prof.G.P.Borsetto che in un libro edito una decina d’anni fa, dette conto d’ un indagine comprovante che l’avvento di tale unificazione non fu dovuto alla volontà dell’intera popolazione, bensì, come sospettavamo ad una elite della borghesia.
In particolare vi si rivelava che il referendum per l’annessione del Veneto al Regno d’Italia fu addirittura falsamente spacciato per favorevole, sebbene l’esito della votazione fosse stato negativo: un autentico broglio di non poco rilievo! Ma verrebbe da dire: onore agli autori!
Mi asterrò dal rievocare con enfatica retorica il Risorgimento non soltanto per mia inettitudine all’ampollosità, ma perché nella specie lo ritengo fuori luogo a Bologna.
Per darne ragione a chi non ne fosse consapevole, è sufficiente citare poche significative malefatte qui perpetrate:
I°-. quando frequentavo il ginnasio Minghetti, abitavo in via Carlo Alberto (prosecuzione di via Marconi, oltre piazza dei Martiri, verso la stazione), orbene ho scoperto che le targhe attualmente esposte su quella strada, riportano invece il nome d’altro personaggio, ed a Bologna, non so da quando, una via Carlo Alberto non esiste più.
Evidentemente qui ci si fa amministrare da notabili concittadini determinati a non lasciar tramandare memoria del re sabaudo ch’era tanto illuminato da emanare il primo nostro statuto, in tempi di monarchie assolute, e-. per subentrare nel governo del lombardo-veneto, affrancandolo dall’esecrata dominazione austriaca, promosse e combattè la prima guerra d’indipendenza nazionale, occasione nella quale egli fece, fra l’altro instaurare la bandiera che fino al 1946 abbiamo onorato per un secolo.
2°-La statua equestre di Vittorio Emanuele II° il quale diresse le due successive guerre d’indipendenza e la costituzione dell’unità d’Italia (per cui fu anche detto “padre della patria”) è stata disarmata, scomponendone la divisa, fu divelta dalla piazza centrale omonima, ora detta “piazza maggiore” (in cui s’ergeva dal 1880, simbolo del riscatto di Bologna dalla sovranità temporale della chiesa di fronte dell’apologetica effige papale in alto rilievo che, al contrario continua a troneggiare intatta dalla facciata del palazzo del municipio) e si trova desso relegata su terreno anonimo dietro i cancelli dei giardini, fuori Porta a Santo Stefano, tuttora priva della sciabola d’ordinanza.
3°- Appena laureato m’iscrissi all’ordine degli ingegneri con sede a due passi dalle Due Torri, in via Mazzini 13, che ora, con ridicola falsità evidente, è stata convertita in “strada Maggiore”in cui gli ingegneri hanno resistito nello stesso immobile d’immutato numero civico, ma le targhe col nome del repubblicano fondatore della Giovane Italia sono state estromesse dal grembo del centro storico e deportate in esilio nella periferia fuori delle mura.
Un tempo si diceva “sic transit gloria mundi”; ma qui non si tratta di “mundi”: nelle altre città da me visitate gli abitanti han conservato toponomastica e monumenti rinascimentali indenni al posto d’originale destinazione.
All’ordine del giorno abbiamo però il 150° anniversario dell’unità, e, mancandone qui il dovuto rispetto, invece di celebrarne l’istituzione, compito del resto già assolto da persone più qualificate di me, a cominciare dal Presidente della Repubblica, vi intratterrò accennando a qualche mia diretta esperienza, vissuta nel “secondo risorgimento” come viene anche chiamata la guerra di liberazione, dato che ebbi a prendervi parte, e certo non vi è stato raccontato tanto a lungo e di frequente quanto il movimento di resistenza dei partigiani, benché d’assai maggior rilevanza.
Mi limiterò a qualche aneddoto, e non in tono aulico, ma familiare come s’addice al confidare vicende e considerazioni personali a consoci che abbiano la cortesia e la pazienza di ascoltarmi.
  L’8 settembre 1943 fu tempestivamente divulgato l’avvento dell’armistizio col quale cessava la guerra che Mussolini ci aveva fatto intentare contro Francia, Inghilterra (e Commonwealth), Grecia, Stati Uniti d’America, e Russia; ma Hitler non sopportò la nostra resa ed immediatamente fece occupare militarmente due terzi della nostra penisola dalla Wehrmacht.
Io mi trovavo alle armi in una caserma di Firenze che venne circondata dai carri armati Panzer cui il comandante del reggimento non potè che arrendersi, ma mi riuscì d’evadere e raggiunger casa.
Però l’indomani lessi un manifesto murale affisso a Porta Castiglione, a firma di Kesserling, che intimava ai giovani d’una età in cui io rientravo, di presentarsi alla caserma di Porta San Mamolo entro due giorni pena fucilazione.
Ascoltando radio Bari e radio Londra si sentiva dire e ripetere insistentemente che il re ed il governo eran riparati indenni a Brindisi, e poiché la Puglia non era occupata da eserciti stranieri, là stavan continuando a svolgere liberamente le loro funzioni. Perciò mi risolsi a partire verso sud per sfuggire alla minaccia tedesca, adoperandomi semmai perché anche il resto d’Italia ne fosse liberato, e presi la mia bicicletta, un valigino riempitomi da  mia madre e 14000 lire infilatemi in tasca da mio padre.
Dopo tre giorni pervenni ad aggirare nottetempo, su una barca da pesca, il fronte bellico, ed a raggiungere Bari, da Termoli, con scalo a Rodi Garganico.
Eran le 9 del 25 settembre. Appena sbarcato in porto, fui sottoposto ad interrogatorio da un colonnello, che mi dette credito (benché indossassi abiti civili e fossi sprovvisto di documenti) e mi fece reintegrar nell’esercito come allievo ufficiale, con la qualifica di “sbandato”;infatti non mi nascose di dubitar della mia assennatezza quando capì che avevo lasciato casa e genitori a Bologna, e percorso quasi mille chilometri col proposito di partecipare alla cacciata delle truppe tedesche dal patrio suolo.
Il colonnello comunque mi dedicò meno di un minuto per spiegarmi che l’Italia non poteva compier altre operazioni militari, perché ridotta allo sfacelo dalla guerra dai rovinosi esiti in cui Mussolini ci aveva inconsultamente  precipitati.
Tuttavia venti giorni più tardi il re dichiarò guerra alla Germania, secondo le mie aspettative, ed io riuscii fortunosamente a farmi ingaggiare dalla prima brigata italiana messa in campo in aggregazione alla V^ armata americana, che ci battezzò “First Italian motorized group”.
Ero tanto convinto di trovarmi nel posto giusto, impegnato ad adempiere l’azione giusta, da cittadino in età di leva, che non temetti mai i pericoli cui mi trovavo esposto nell’incarico, che mantenni sempre, di capo pattuglia,  e da subito mi sentii a mio agio.
Fu là ad ogni modo, che dovetti riconoscere le ragioni del colonnello che m’aveva indagato al mio sbarco a Bari, perchè questo primo Raggruppamento italiano di cui ero entrato a far parte, risentiva di essere stato costituito all’insegna dell’improvvisazione, vestiva divise di tela caki (rinvenute in magazzini pugliesi, in precedenza destinate alle perdute colonie africane), uniformi del tutto inadatte all’uso invernale specie sugli Appennini, le armi risalenti all’’800, mancavano depositi di rifornimento di munizioni ed i radiotelefoni da campo che sarebbero occorsi per esercitare i compiti affidatimi, senza parlare del generale disorientamento dovuto alla subitanea trasformazione della pace connessa con l’armistizio, in ripresa delle armi con rovesciamento d’ostilità ed alleanze.
Eccovi due aneddoti, che non trovereste mai in un libro di storia, sul generale Dapino in comando:
1)-Presentatosi giorni avanti al 51^ battaglione di reclute di bersaglieri in addestramento preliminare al corso AUC, dopo una succinta aringa appropriata ai novizi regolarmente schierati sull’attenti, annunciò la formazione d’un corpo di truppe italiane volontarie, per prender parte congiuntamente agli ex nemici americani e inglesi, a combatter gli ex alleati tedeschi accanitamente impegnati a mantenere l’Italia settentrionale e centrale sottomesse al III^ Reich e terminò gridando:”Se c’è qualche vigliacco che rifiuta di venire, faccia un passo avanti!
Tutti rimasero stupiti, ma immobili sull’attenti e divennero così ipso facto volontari ed assegnati ad aggiungersi ai tre reggimenti che costituivano la brigata del generale.
In verità anche questi non erano ancora preparati al capovolgimento del fronte bellico che raramente gli ufficiali eran stati in grado di spiegare in modo convincente ai sottoposti
2)-Il generale Marc Clark capo della V^ Armata americana, venne a passarci in rassegna ad Avellino, e dopo un rapido esame constatò la carenza di qualità sia d’armamento sia di vestiario; ma il nostro se lo aspettava e s’era preparato, e disinvoltamente asserì: “il soldato italiano è abituato così”.
E così la sera del 6 dicembre raggiungemmo la prima linea del fronte, a dare inizio al Secondo Risorgimento, la nostra guerra di liberazione. Per questi preliminari potrebbe esser criticato, però quale comandante designato il Dapino seppe intraprendere il repente avvio dell’impossibile conflitto preteso dal re. Onore a lui!
Trascorso un giorno ad acquartierarci senza neppure riuscire ad orientarci nel teatro delle operazioni in cui eravamo stati introdotti, all’alba dell’8 dicembre non ostante l’acclivio del suolo e le sfavorevoli condizioni meteorologiche, s’affrontò il battesimo del fuoco tentando con un assalto, subito rintuzzato sanguinosamente, di conquistare Montelungo, uno squallido dosso roccioso sulla via di Cassino, ove la Wehrmacht restò trincerata per cinque mesi. In quel brevissimo attacco miseramente fallito, assolsero e conclusero sventuratamente la loro parte i due compagni di liceo che avevo rincontrato, unici bolognesi, fra gli allievi ufficiali direttamente reclutati dal nostro generale, come surriferito: Carlo Cosimini, colpito a morte appena s’era mosso, e Federico Marzocchi, pochi minuti dopo ferito al braccio che dovette essergli amputato.
Il gen, Clark ci visitò l’indomani, mostrò di dolersi dell’eccezionale numero di vittime patite nel nostro nefasto esordio, che in parte giustificò, sebbene di misura inusitata nella sua armata (ove si era molto restii  a mettere a repentaglio le truppe), e cavallerescamente propose di ritentare l’espugnazione mancata; ed alla seconda offensiva, una settimana più tardi, ci fece precedere quella volta, da un imponente preparazione di fuoco d’artiglieria, anzichè del reggimento della nostra brigata (che del resto era già a corto di proiettili) di batterie della XXX^ divisione Texas, attestata al nostro fianco sinistro,che sconvolsero meticolosamente ogni versante del colle da conquistare, facendovi esplodere migliaia di proiettili.
Fu un interminabile fracasso da fine del mondo, che dopo lo sbigottimento,mi fece sovvenire della massima “C’est l’argent qui fait la guerre”.
Così potemmo e con ben minori perdite, arrivare a far sventolare la nostra bandiera (proprio del genere di quella ch era stata adottata da Carlo Alberto) sulla vetta di Montelungo.
Coi due fatti d’armi dei nostri primi venti giorni c’eravamo ridotti, fra morti e dispersi, da 4500 a 2500 circa! Al sacrificio della prima della guerra impossibile, era almeno seguita una consistente vittoriosa avanzata. Onore a Clark ed ai nostri tanti  caduti!
In memoria dei due scontri, adesso il comune di Mignano, ove si trova quella zona operativa, si chiama Mignano Montelungo, e conformemente a Redipuglia dopo la Grande Guerra, su quella impervia altura è stato composto un suggestivo sacrario con tombe degli uccisi, assurto ad emblema dell’abnegazione delle Forze Armate Italiane durante l’intera guerra di liberazione.
Dopo questa impresa la nostra brigata andò a riposo; fu riordinata e trasferita alla VIII^ armata inglese, e s’accrebbe a divisione chiamata CIL al comando del gen. Utili.
Tornando in linea fummo affiancati alle due divisioni francesi del gen.Jouin, e più tardi al corpo d’armata polacco del gen. Anders, che fra le varie battaglie prese parte alla liberazione di Bologna, ma ebbe la sfortuna di dover restare esule a .Londra ove spirò una ventina d’anni dopo senza  aver potuto rimetter piede in patria, perché impeditogli dal governo di Varsavia del dopo guerra. Onore al generale Anders ed ai suoi accoliti!
Risalendo la penisola impegnati in più d’un fatto d’armi fino alla linea gotica sulla quale le divisioni tedesche s’attestarono nell’inverno 1944-1945, poteron venir coscritti molti altri ufficiali e soldati volontari dei territori liberati così da assurgere a corpo d’armata di cinque divisioni dette Gruppi di Combattimento equipaggiati ex novo dal superiore comando inglese coi nomi: Cremona, Mantova, Piceno, Folgore, Friuli e Legnano, al quale appartenevo io. Arrivammo in tal modo ad assommare 413.000. Ma le vicende del R.Esercito in territorio nazionale non furon mai commemorate dai media, al contrario di quelle della Resistenza partigiana.
E ciò malgrado sia stata di gran lunga maggiore la partecipazione ai combattimenti delle nostre truppe e sia stato grazie alla cobelligeranza delle Forze Armate regolari (costata circa 80000 morti) che Alcide De Gasperi, a guerra finita seppe ottenere che all’Italia venisse riservato un trattamento ben migliore che a Germania e Giappone, nelle cui abbiette velleità di assoggettare il resto del mondo, col pretesto della vantata superiorità razziale,il Duce ci aveva sventuratamente coinvolto. Onore ai Gruppi di Combattimento!
Più che con operazioni militari a questo punto penso di potervi interessare con qualche testimonianza su quello che impropriamente alcuni chiamarono il regno del sud. Infatti dopo le due battaglie di Montelungo, beneficiai  d’una settimana di licenza premio, che decisi di trascorrere in abiti civili a Napoli, anche se come in tutto il resto del mezzogiorno, non vi conoscevo nessuno.
Là ebbi l’opportunità di incontri di notevole rilievo, come Benedetto Croce che mi ricevette a Villa Tritone a Sorrento ed in città Carlo Sforza, Adolfo Amodeo, Italo De Feo e Mario Craveri.
La conversazione di quasi un ora con Croce, da lui riportata in una pagina del suo ultimo libro, mi esaltò per la vivacità della sua intelligenza, che fra l’altro gli consentiva talvolta di rispondermi a domande prima ancora che io le avessi completamente formulate. Fu una specie d’ intervista    che posso riassumere per sommi capi: alla mia lamentela che troppa gente dopo cinque mesi dalla implosione del fascismo del 25 luglio non aveva ancora capito, neppur dalla libera stampa che le quattro guerre (Etiopia, Spagna Albania e Francia-Inghilterra-Grecia-Stati Uniti-Russia,eccetera, oltre le repressioni in Africa) e le altre tragedie e disastri che stavamo vivendo, eran dovute tutte alla calamitosa dittatura fascista, rispose sinteticamente solo: “Non perdonerò mai a Mussolini d’avermi indotto a sperare che l’Italia perdesse la guerra, ma se il fascismo è qui ancora un residuo nell’animo di tanti, in Francia con Petain s’è divulgato addirittura allo stato idillico.
Lamentai d’aver visto ad Avellino in vendita un giornale  il cui articolo di fondo, a firma Guido Dorso, parlava della nostra brigata sotto il titolo “La conquista regia”:Croce si limitò a dire che conosceva l’autore e lo qualificò un bravo ragazzo; dalla Treccani ho appreso poi che era un notabile del Partito d’Azione. Io però dissentii: l’unica cosa ch’ero riuscito ad ottenere da lui era stato che se lui avesse saputo che saremmo passati da Avellino per recarci al fronte, avrebbe atteso che ce ne andassimo per fare pubblicar l’articolo.
Non apprezzai neppure la risposta alla domanda in quale stadio ci trovassimo, secondo lui in riferimento alla famosa frase di Massimo D’Azeglio:L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani, rispose:”che sitrattava d’un errore: gli italiani non son da fare o disfare, son i figli di mamma italiana.”
Il conte Sforza mi mise al corrente di significative, delicate circostanze del suo recentissimo rimpatrio dagli Stati Uniti ove era stato da fuoriuscito, e del placet riscosso a Londra personalmente da Churchill, al quale aveva comunicato l’intendimento di mettersi a disposizione del governo italiano, per cui mi capacitai, di poi, del fatto, che avendo mancato di collaborare col re e Badoglio, a lungo non gli fu consentito alcun incarico ministeriale, per veto britannico, durante il regime del GMA. In effetti circa il suo atteggiamento politico mi dichiarò apertamente (con mio sconcerto, essendo lui un nobiluomo, insignito dal re del collare dell’Annunziata, ex ambasciatore ed ex ministro  poi senatore)  che, dopo un mese trascorso a Brindisi dove, a suo dire, non aveva trovato possibile dare il proprio contributo, s’era trasferito a Napoli da cui “ con Croce facciamo guerra al re”. Don Benedetto era stato con me più riservato.Curiosamente fu Sforza che al commiato mi consegnò un biglietto di presentazione a M.Craveri, genero di Croce.
Nel libro di memorie pubblicato a guerra finita io figuro registrato per l’.incontro, ma senza citare la suddetta confidenza.
 Altrettale  scelta di ribellione al sovrano trovai da parte del rettore universitario prof. Omodeo col quale ebbi a cenare una sera a Villa Lucia, ospiti del De Feo. Lui era il leader locale del movimento di Giustizia e Libertà .Con me (anzi contro di me) sostenne che la guerra di liberazione da parte italiana  non doveva essere combattuta dal R.Esercito al quale m’ ero rivolto io, perchè vi sussisteva il rito del giuramento di fedeltà al re; doveva perciò essere costituita una “nuova armata di volontari  da far comandare da un tenente di complemento”.
Evidentemente lui si esprimeva su argomenti ignoti e dimenticava che anche i tenenti di complemento avevano tutti giurato fedeltà al re. e che tutti i docenti della sua università, compreso forse lui stesso dovevano aver prestato il giuramento fascista, per esimersi dal quale sapevo che soltanto una dozzina di professori universitari nell’ intera Italia avevan dovuto  cessare la loro attività didattica;  era in preda a faziosità superiore al discernimento, e mostrava di mancare di senso dello stato.
Ciò che deplorai maggiormente fu in quel tragico momento, con le città  del resto d’Italia bombardate, Mussolini sotto tutela delle SS aveva rialzato la cresta. a Salò, e tanti connazionali gli tenevan bordone, centinaia di migliaia di militari eran tagliati fuor dai nostri confini, alla mercè degli hitleriani, tante famiglie smembrate ecc.ecc., non si comprendeva che era supremamente necessario unire ogni forza per svincolarsi dall’invasione nazista, e per sopperire alla situazione di paralisi economica e finanziaria, salvando la popolazione dalla fame quale appariva dal mercimonio praticato sulle strade, sotto gli occhi di tutti, con le “segnorine” che adescavano i soldati stranieri bianchi e neri.
Anche vecchi personaggi come Vittorio Emanuele Orlando e Saverio Nitti, delusi da non esser stati chiamati ad incarichi di governo, erano intenti a combattere re e Badoglio anzichè le truppe di Hitler che stavan spadroneggiando nel nostro paese come fosse una colonia del Reich.
E dire che  bastò affidarsi al grande giurista Enrico De Nicola che non nutriva ambizioni politiche, ma che in un colloquio di poco più di mezz’ora seppe convincere il re a ritirarsi nominando il Principe di Piemonte luogotenente del regno non appena fosse stata liberata Roma.
Circa la democrazia che insieme alla libertà avemmo facoltà dà attingere a guerra finita, potrei citare non pochi casi che dimostrano trattarsi di cultura di difficile assimilazione per la nostra gente, a colpa secondo me, in particolare dei governi frequentemente succedutesi e dei partiti che mai si fecero carico di spiegarla a tutti i livelli e propagandarla, la democrazia per correggere gli aberranti insegnamenti propinatici durante la ventennale nefasta dittatura, tenendo conto che ben poca attitudine alla gestione della politica dimostriamo noi italiani come disse Giovanni Giolitti alla fine della sua vita.
Al referendum istituzionale  nel 1946, vi confido che votai per la repubblica considerando ormai anacronistica la monarchia, ed altresì che i comportamenti dei Savoia contemporanei consigliavano di non rinviare l’attuazione dell’aggiornamento a repubblica offerta dalla circostanza; oltre alle corresponsabilità del re durante il fascismo anche l’erede appena succedutegli non aveva fornito garanzie di validità date le topiche in cui era incorso da luogotenente.
Una per tutte: nell’inverno 1944-1945 in un’indebita intervista carpitagli da giornalisti americani, preferì difendere la compromessa figura politica del re piuttosto dell’estremo interesse che la nazione aveva d’apparire presto riabilitabile fra i paesi civili, all’indomani dall’aver subito la dittatura mussoliniana. Infatti alla domanda come mai il re suo padre avesse consentito il fascismo, si apprese dai giornali che aveva risposto: “il fascismo l’han voluto gli italiani”.
E’ chiaro che non gli era stato insegnato che i membri delle famiglie reali non devon concedere interviste, né che chi ha gravi responsabilità può e deve saper mentire, all’occorrenza come ho già detto,non mancò di fare il gen.Dapino per obbedire alle disposizioni del capo delle Forze Armate.
Ho raccontato qualche informazione su alcune mie esperienze perché sento il dovere, verso chi ha perso la vita per la liberazione, la più giusta  delle guerre, il II^ Risorgimento, di ricordarne il sacrificio. Furon giovani italiani unitisi a quanti vennero in armi, anche da stati d’altri continenti, a salvare l’Europa dalle ingiurie della mostruosa tirannide dell’infame Hitler.
Inoltre come m’è affiorato alla mente ripensando a quei tempi, considero che l’usato detto che il futuro degli anziani sono i più giovani, è più valido se rovesciato: il futuro dei giovani siam noi adulti, vegliardi caduci compresi, perché dipende da quello che avranno imparato da noi, e quindi è nostro compito informarli di come noi affrontammo le vicissitudini della giovinezza nostra.
Se viviamo ora da persone libere, ed è salva la nostra civiltà, è comunque a tutti questi combattenti che lo si deve, di qualsiasi provenienza, grado militare, cultura, condizioni sociali e religione.
Onore  a loro!


* Questo articolo fu inviato  nel 2013 ad una Rivista che da quell'anno ha terminato le sue pubblicazioni.
Al fine di mantenere la promessa di pubblicazione ad un amico 
lo metto in visione ai lettori
per porre riparo almeno in parte alla mancata pubblicazione.
(massimo coltrinari)

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