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sabato 9 novembre 2024

LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA II Parte

 APPROFONDIMENTI


Sergio Benedetto Sabetta

( Seconda parte)


LA  MEMORIA E LA STORIA

 

            Attualmente vi è la tendenza a ridurre la storia ad una serie di fatti autonomi, non calati nel contesto, vi è quindi una distorsione della loro lettura.

            Si arriva addirittura a cancellare la storia quale elemento superfluo, vivendo in un eterno presente, fondato sul concetto economico neoliberista per cui tutto si ridurrebbe al solo aspetto economico di una continua crescita quantitativa del consumo, indipendentemente dalla qualità.

            Si introduce l’idea della a-storia quale “fine della storia”, seconda una visione messianica non realizzatasi, ma la rinuncia alla propria storia crea una debolezza identitaria che ne favorisce la manipolazione, una rivendicazione di diritti senza chiari doveri che in tal modo vengono a disarticolare il tessuto sociale.

            L’Occidente soffre di tre crisi: psicologico – culturale, demografica e di una visione strategica condivisa, questo favorisce la volontà di affermazione di altre potenze globali che si ritagliano proprie aree geografiche di influenza.

            In questo contestare la supremazia occidentale, rappresentata dagli USA, rientrano gli eccessi della cultura woke e della cancel culture, nate in California, che creano un senso di colpa nell’Occidente senza cogliere la dimensione progressiva della storia.

            La memoria è dinamica e quindi strettamente connessa alla libertà, la sua cancellazione in un continuo presente ( a- storia) conduce alla perdita inconsapevole della libertà, indolore ma per questo più profonda e subdola.

            Ne sono testimonianza le continue polemiche sulle varie figure storiche e fatti che vengono astratti  dal contesto storico, per divenire puro strumento di lotta ideologica avulso da qualsiasi riflessione storica, come il disamore verso la nostra cultura che rende indifferenti alla perdita di tradizioni e artigianato in una male intesa globalizzazione, a questo si oppone quale richiamo la presente pubblicazione.

            L’Italia ha una storia particolare, è fondata sulla storia, incrocio di tre continenti è una penisola posta al centro del Mediterraneo, ricca per il suo valore strategico, economico e culturale, sempre contesa dai potentati esterni e indebolita internamente da quello che “ Foscolo nella – Lettera apologetica -, vedeva nell’interessata collusione degli intellettuali italiani”, e non solo, “ con lo straniero il pericolo sommo” ( 50 – 51, Il futuro della memoria, AA.VV., Limes , 4/2024).

 

             

Altipiani

 

            Il fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.

            La Strafeexpedition travolse l’intero altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.

            La battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.

            Si giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo  un lungo errare per camminamenti sconosciuti , ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre, come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.

            I rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe stato troppo duro riconquistare la cima.

           

Colbricon

 

            Il Colbricon è tagliato netto in due da una parte un pendio agevole di sassi, di grandi rocce e  di pascoli, percorso da frequenti piccoli  rigagnoli d’acqua: il versante nemico. Da questa parte una parete verticale sotto le cui altissime pale vi sono sentieri vertiginosi, terrazzini aerei, ballatoi tremanti, scale verticali per vincere il precipizio: le posizioni italiane presidiate da fanti e bersaglieri, non dunque alpini, la brigata Calabria.

            Questa brigata costituita da pastori jonici, contadini umbri, maremmani e ciociari, in gran parte con veneti della costa o delle paludi, questi tennero le posizioni a 2.700 metri contendendole agli austriaci in sortite sulle sassaie perennemente ingombre di neve, perdendole e riprendendole.

            Nella parte inferiore del monte vi erano le baracchette scavate nella roccia dove alloggiavano ufficiali e telefonisti, più in alto le nicchie e i covi a cui si accedeva per scalette piantate nella roccia. Nelle nicchie e nei buchi vicino alle feritoie vi erano le coperte da campo, le cartoline in franchigia, le gavette, i calzari contro il gelo, le “fipe” già discaspulate.

                       

 Carso

 

            Non è Carso, il Podgora è il Podgora. Quando nella primavera del 1915 i primi reparti valicarono il confine, i battaglioni si nutrivano di ciliegie e frutta raccolta sul posto in quanto il rancio non arrivava, ma avanzavano fiduciosi nelle nuove terre finchè vennero bruscamente fermati da queste irte difese.

            Allora si interrarono e restarono fermi per mesi e mesi, ficcati nel suolo che in autunno si trasformò in un fondo pantano, con ricoveri di fango che crollavano addosso per la pioggia, senza ranci caldi, andando all’assalto dei reticolati intatti, senza adeguati tiri d’artiglieria a copertura senza elmetti e con le sole forbici tagliafilo, gli ufficiali in diagonale e fregi argentati sguainavano negli attacchi le sciabole brunite.

            Tuttavia in un impeto giovanile venivano lanciate all’assalto e rilanciate in una carneficina le brigate Pistoia, Pavia, Re, Casale, Carabinieri, sotto il fuoco delle mitragliatrici e della fucileria rotolavano giù per il pendio i morti e i feriti con gli sbandati, ma bastò un giorno che un trombettiere della brigata Re caporale Ippolito suonasse nella tromba a vanvera tutte le arie della caserma, “cappella marca visita” e “adunata seconda compagnia”, perché le schiere si riordinassero e tornassero nuovamente all’assalto dei reticolati intatti, la morte non fu più un’attendere ma divenne una costante del fante.

            Nel Carso accanto al Podgora vi è il San Michele dove vi era una palude morta il lago di Doberdò, qui si arrestarono per lunghi mesi  gli sforzi degli assalitori, per superarlo al volo dopo la conquista di Gorizia, la valle non fu mai commemorata come luogo di battaglia.

            Doberdò sia gli italiani che gli austriaci lo chiamarono concordemente l’inferno, come la cima del San Michele che fu detta dagli ungheresi “il monte dei cadaveri” tanti erano ammucchiati che ne aveva mutato il profilo.

            In queste buche mezze colmate di fango irruppero i fanti della Perugia, fasciati i piedi dai sacchetti per la sorpresa notturna, il terreno era duro e di sasso come i parapetti delle trincee dove non si era avuto il tempo o i mezzi per scavare.

Quando i proiettili dell’artiglieria vi battevano dentro le schegge si moltiplicavano, esse cadevano tutto intorno in una grandine di pietre, quelle trincee e quei camminamenti durante le piogge si convertivano in torrenti di fango, in fosse di melma alta e densa che cancellava mostrine, uniformi e connotati alle persone, passando con uguale intonaco viscido sulle armi, sulle ferite e sui cibi.

Dai posti avanzati durate le tregue del fuoco, i fanti potevano vedere, immersi nelle trincee, nella pianura Gorizia avvolta nella caligine come una meta lontana  e preclusa.

 

Ortigara

 

 

Da un lato la montagna cade a piombo sulla Valsugana, scendendo rapida sul Passo dell’Agnella da dove venne l’attacco, dall’altro lato l’altopiano si estende senza forma né confini per leggere valli e modeste ondulazioni, arido simile a un gigantesco Carso, dove le doline si chiamano buse, le quote s’innalzano a 1.500 e a 2.000 metri: Campigoletti, Cima Lozze, Caldiera, Campanaro e il famigerato Corno di Campo Bianco, nido degli osservatori austriaci.

Vi erano dalla parte italiana 26 battaglioni alpini, due brigate di fanti, un reggimento di bersaglieri, con batterie da montagna in prima linea a tirare a raso zero. Dalla parte austriaca i battaglioni scelti del celebrato “III Corpo d’Armata di ferro”.

La battaglia durata venti giorni fece tuonare più di quattromila bocche da fuoco tra cannoni, obici, mortai, bombarde e nuvole di gas e fiamme sopra pochi chilometri quadrati, mentre gli austriaci erano insediati in caverne organizzate delle quali i nostri bollettini ne tacquero l’esistenza.

La carneficina causò tra le nostre fila 30.000 perdite fra morti e feriti, in poche ore dei reparti coinvolti ne restavano avanzi sparuti, “i battaglioni ritirati dall’inferno dell’Ortigara sono scorie”, come riferisce la relazione ufficiale austriaca, si comprende così il grido disperato di quei fanti della brigata Regina dopo venticinque mesi di guerra: “Ridateci il nostro Carso!”.

Nella primavera del 1917 i soldati non credevano più alla propaganda sulla vittoria ma non si pensava alla sconfitta, erano come dei sonnambuli, quasi bambini dallo sforzo di non pensare troppo, due anni di guerra aveva scavato un abisso tra il paese e il fronte, allora nel paese non vi era quel desiderio di finire presto questa guerra, con il malcontento per il vitto sempre più raro, per il disagio crescente, lo scontro tra soldati in linea e imboscati, e campagne assenti per mancanza di braccia.

In linea, al contrario vi era un rassegnato adattamento a dover lasciare  prima o poi la vita in questa mattanza che non finiva più, tuttavia annebbiati in quell’apatia che diviene spesso una benefica anestesia, gli ordini delle varie operazioni si eseguivano senza ribellione e fede anche nel prevederne il fallimento.  Talvolta l’inerte ubbidienza cedeva a improvvise ribellioni immediatamente represse con ferocia.

Nonostante fossero sfiduciate sull’Ortigara le truppe rimasero fedeli e uscite dalle trincee riuscirono a conquistare le tre cime, tuttavia sul fianco sinistro l’offensiva era fallita ed era stata del tutto abbandonata.

Ricevuto l’ordine di fermarsi sulle posizioni conquistate si trincerarono e in uno spazio incredibilmente ristretto decine di migliaia di uomini  furono investiti dal fuoco delle artiglierie, da nuvole di gas e torrenti di liquidi infiammabili, le tre cime furono perse e riconquistate tra attacchi e contrattacchi respinti mentre le retrovie subivano furiosi bombardamenti.

Si racimolarono gli ultimi brandelli di battaglioni, due battaglioni rimasti per miracolo intatti furono anch’essi buttati nel fuoco e si andò all’attacco riconquistando il terreno perso e facendo dei prigionieri, per cinque giorni si rimase inchiodati sulle posizioni riconquistate disfacendo gli ultimi reparti.

Venne alfine l’ultimo attacco nemico che travolse la cima riconquistata ma si riuscì a contenerlo arrestandolo poco sotto, solo quando arrivò l’ordine di rientro, a scaglioni si sganciarono, una squadra del battaglione Cuneo non venne informata dell’ordine del ripiegamento, rimase tutta la notte e tutto il giorno seguente al suo posto rientrando illesa ventiquattro ore dopo, con il nemico che dubbioso della sua vittoria non aveva osato scendere dalla cima.

Guardando fuori dalle trincee della Caldiera si vedeva l’Ortigara cambiare colore, fumare in giallo e nero per le esplosioni ed i gas, ma nonostante tutto si resisteva nonostante lo scoramento e la mancanza di un senso nella lotta quotidiana se non sopravvivere, in uno scatto di orgoglio la frase la disse per tutti l’alpino Santino Calvi del battaglione Bassano : “ Vedrete oggi, come sanno morire gli alpini italiani !”, e morì. “ Me fa pecà  ricordò il vecchio alpino del Val Brenta.

Monte  Grappa

 

La cima del Grappa è ancora incisa dalle trincee e scavata da chilometri di caverne, oggi spianata da un Ossario, cimitero monumentale per i caduti che tra il 1917 e il 1918 trasformarono la montagna nel cardine della difesa tra la pianura del Piave e le catene montuose del Trentino.

Il 24 ottobre 1918 da questo monte iniziò l’ultima battaglia, quella della vittoria, fu una lotta dura e feroce esasperata dalla volontà di resistenza dei nemici, in Europa vi era una stanchezza per la guerra infinita, i cittadini tumultuavano, vecchie e nuove nazionalità esplodevano in ribellione e i diplomatici pensavano già al dopo guerra.

Sulle balze del monte le migliori truppe d’Italia e quelle più solide dell’Austria si scontravano furiosamente, brigate di fanti fatte con le reclute del 1899, ma inquadrati da veterani delle battaglie precedenti,reparti d’assalto di fiamme nere e fiamme rosse, vecchi battaglioni d’alpini che si erano  già scontrati sulle Tofane, sull’Ortigara, sul Vodice e sul Tomatico, iniziarono l’ultima battaglia per stornare il nemico dal piano e dal fiume Piave.

Nella nebbia mattutina escono gli arditi del XXIII reparto d’assalto e fanti della Pesaro contro il Pertica, gli arditi del IX reparto e fanti della Bari contro l’Asolone, gli alpini e i fanti della Lombardia e dell’Aosta contro i Salaroli e il Valderoa. Il primo giorno della battaglia non porta altri vantaggi che la conquista del Valderoa.

Il 25 la brigata Pesaro conquista il Pertica e riesce a conservarlo, l’Asolone è preso dagli arditi che balzano oltre l’obiettivo dell’assalto fino a raggiungere il Col della Berretta, più tardi riconquistato con un violento attacco dal nemico che annienta i difensori, al Col del Cuc, ai Salaroli e oltre il Valderoa gli italiani vengono fermati dai reticolati intatti, dalle difese scavate nella roccia e dalla nebbia.

Animose pattuglie si fanno sotto i reticolati, li riescono a valicare, ma i rincalzi non possono seguirli, sono quindi distrutte, altri reparti ne imitano l’eroismo subendo la stessa sorte, i veterani sentono per la prima volta dietro di sé l’intero paese.

Nel disfacimento del vecchio Impero austriaco, vengono  a rinforzo gli ultimi soldati  delle divisioni di Boroevic, questo è l’ultimo duello, devono resistere e riescono a farlo bene nella ricerca di un armistizio onorifico al fine di salvare l’Austria dall’invasione e con essa la corona all’Imperatore.

Avanza la celebre divisione Edelweiss, e con essa i territoriali croati del 27° reggimento che si offrono volontariamente per la battaglia, ignari che tra una settimana si proclameranno nostri alleati, i Galiziani del 120° , i Cechi e i Bosniaci, mussulmani realissimi a Sua Maestà Imperiale.

Alla testa avanzano le Sturm-truppen , truppe d’assalto con alla testa il  terribile 55° reparto, seguono le divisioni di riserva tenute in serbo negli alloggiamenti tra il Piave e Belluno.

Gli Austriaci sanno che il Piave è in piena e che la corrente travolge i ponti, gli Italiani sono in crisi nel forzarlo, si cerca di capovolgere l’esito della battaglia sulle pendici del massiccio del Grappa.

La notte del 26 ottobre il battaglione alpini Aosta a selletta Valderoa viene attaccato e resiste contrattaccando per 12 ore, quando finalmente arrivano i rinforzi poche decine di uomini rimangono validi: 10 ufficiali morti e 15 feriti, 130 soldati morti e 640 feriti danno al battaglione, già distrutto un anno prima al Vodice  due anni prima al Pasubio, il titolo nobiliare di “massacratissimo”.

Gli alpini del Pelmo e reparti della Bologna occupano Col del Cuc, sull’Asolone fanti della Forlì e arditi XVIII reparto per venti volte assaltano le trincee nemiche finché alla sera la montagna rimane agli austriaci.

Il 27 ottobre cade il Valderoa invano difeso fino al totale annientamento da una compagnia del battaglione Cadore senza più ufficiali ed ai superstiti del battaglione Aosta. Anche il Pertica è perso, riconquistato e riperduto, alla sera il Pertica è nuovamente e definitivamente italiano, ma gli austriaci serrano minacciosamente ancora sotto.

Il 28 è un giorno di tregua relativa, il 29 la battaglia divampa ancora con rinnovata violenza, arditi e fanti della Calabria si dissanguano sul Col della Berretta,altri reparti di arditi riprendono l’Asolone ma vengono di nuovo scacciati, ben 17 assalti vengono respinti finché con tenacia i reparti della Siena irrompono sulla vetta e la difendono contro rinnovati attacchi nemici che tuttavia alla sera riescono a scacciarne gli italiani, l’ultimo sforzo vittorioso austriaco.

Tuttavia il nemico è caduto nel tranello riversando sul Grappa la maggior parte delle riserve e logorando le sue truppe migliori, sul Piave nel frattempo la battaglia è vinta con la presa della piana di Sernaglia, viene pertanto dato l’ordine dal Comando Supremo all’Armata del Grappa di sospendere l’offensiva costata la perdita di trentamila uomini.

 

( Paolo Monelli, Sette battaglie, Treves 1928)

 


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