APPROFONDIMENTI
Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta
( Prima parte
)
Alta Montagna
Quando si sale per un sentiero di montagna o un nevaio particolarmente difficile tra gli alpini della Grande Guerra vi era il detto “ Passa parola che la monta”, queste parole sono particolarmente confacenti alla guerra in alta montagna tra i 2200 e i 3700 metri di Monte Nero, Alpi di Fiamme, Tofàne, Monticelli, Poi Crozzon di Lares , Loccia Alta, Dosson di Genova, il Mantello ed il San Matteo, la più alta battaglia combattuta nella storia.
Il 15
giugno del 1917 sul ghiacciaio di Lares gli sciatori del Capitano Calvi si
esposero al fuoco delle mitragliatrici austriache per distrarre i difensori, mentre gli alpini del battaglione Val Baltea
scalarono il picco su una parete talmente liscia che bastava un solo tiratore
austriaco per fermarli, finché arrivati in cima conquistarono il Corno di
Cavento sorprendendone i difensori.
Sul
Passo della Sentinella e sulle posizioni di Cima Undici vi erano le baracchette
su cengine incastrate fra le rocce tenute su con le funi, le finestrelle si
spalancano sul vuoto mentre le porte possono diventare trabocchetti sull’abisso.
Il
Piccolo Lagazuoi fu demolito tre volte il 23 maggio 1917 gli Austriaci fecero
scoppiare la seconda mina che determinò il crollo di un suo superbo pinnacolo
su cui vivevano aggrappati i plotoni alpini del Val Chisone.
Un giorno arrivò un ordine, tutti gli
ufficiali scapoli del battaglione a turno dovevano andare in fondo ad una
determinata grotta ogni giorno per un’ora, questo al fine di sentire se e come
lavorava la perforatrice austriaca che stava preparando la camera di scoppio.
La
sorveglianza era pericolosa, si preferiva piuttosto andare all’attacco per
crode e baranci in quanto gli austriaci anche se avevano finito il lavoro
mantenevano in funzione la perforatrice per ingannare, così si aspettava con le
orecchie sul geofono temendo un’esplosione da un momento all’altro.
Fortunatamente
dal Col di Lana gli italiani potevano osservare il rovescio delle posizioni
nemiche e il giorno in cui non videro più lo sgombro dei materiali di scavo
diedero l’allarme, essendo il lavoro di scavo finito. Si restò in attesa dello
scoppio finale.
La notte
della mina appena cessò il rombo dell’esplosione e gli echi di valle in valle
con sorpresa degli austriaci si udì suonare un’allegra fanfara alpina su per la
cengia Martini, una beffa di guerra, come avveniva molte volte in questa lotta
in alta montagna. Un caso analogo avvenne con il Capitano Rossi della 96°,
Battaglione Antelao che fece squillare la fanfara per incoraggiare i suoi
alpini nello scontro sul masaré di Fontananegra.
Nel
Piccolo Lagazuoi il presidio del Dente fu ritirato prima dello scoppio,
rimasero sotto al crollo le poche sentinelle che guardavano la punta estrema
della cengia, una volta avvenuto lo scoppio la compagnia che si era ritirata
passò al contrattacco e alla baionetta ricacciò gli austriaci facendo suonare
le trombe e i bombardini e cantando le canzoni degli alpini piemontesi: “Fieui partouma, sentì le fanfare…” .
La lotta
era di pochi contro pochi, viso a viso, vedendo in faccia il nemico, per
posizioni che a 3.000 metri bastavano un caporale e tre uomini oppure trenta
tonnellate d’esplosivo e un anno di scavi, su pinnacoli tanto aguzzi che
bisognava legarsi per dormire.
Quando
sulla Tofana di Rozes si riuscì a issare un cannone, al primo colpo, mentre
alpini e serventi ne osservavano gli effetti sul fondo valle, il cannone
lentamente incominciò a retrocedere finché fini per rotolare mille metri più sotto, dove rimase fino a fine guerra.
Le
battaglie cominciavano solo dopo ore di
arrampicata sulla roccia, a furia di corde, picozze e chiodi nella muraglia,
digiuni, infreddoliti, recando sulle spalle viveri, bombe e mitragliatrici,
quando si era sull’orlo della cima si veniva coinvolti in una mischia mortale,
nel caso delle mine queste erano precedute da studi minuziosi e scandagli lungo
le pareti legati a corde pendenti nel vuoto.
Questa
tipologia di lotta spiega due cose, la personificazione che i soldati avevano
degli elementi naturali entro cui si viveva prima ancora che contro il nemico,
esseri soprannaturali e maligni che si dovevano combattere, inoltre in secondo
luogo l’umile grado di questi “eroi” appartenenti tutti alle gerarchie
inferiori.
Talvolta
agli scoppi si sovrapponevano i boati delle valanghe, masse enormi di neve
slittavano dalle creste precedute da un freddo vento e nel precipitare di una
nuvola di neve batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni
interi erano seppelliti senza lasciare traccia, coloro che ne scampavano,
tratti fuori dalla massa bianca, non potevano più sopportare coltri pesanti
avendo l’incubo della soffocazione.
Monte Nero
Spunta l’alba del
sedici giugno,
comincia il fuoco
d’artiglieria,
il terzo alpini è per
la via
Monte Nero a
conquistar.
Così
comincia la canzone di gesta del Monte Nero, parole semplici, ritmo lamentoso,
come nacque la sera dopo la battaglia, il testo originale fu scritto su un
pezzetto di carta dall’alpino Domenico Borella che aveva partecipato alla
battaglia.
Come
coloro che partecipando ad una battaglia non si accorgono del mito che su di
essa si forma Borella intitolò così la sua creazione : Cansone omoristica del 3° Reggimento Alpini alla conquista del Monte
Nero.
Quando fummo a trenta
metri
dal nemico ben
trincerato,
un assalto disperato
il nemico fu
prigionier.
L’attacco al Monte Nero avvenne
ad opera della 84° compagnia dell’Exilles, capitano Arbarello, che si arrampicò
per l’esile costone Sud-Ovest del monte, in fila indiana rapidi e silenziosi su
rocce a picco.
In testa vi era il sottotenente
Picco con cinque alpini, veniva dietro il capitano Arbarello con un plotone di
cinquanta uomini a cui seguivano quale rincalzo altri due plotoni, fucile a
tracollo, tascapane con viveri e cartucce, niente bombe a mano in quanto si era
all’inizio della campagna e le bombe a mano le avevano solo i nemici.
Poco
sotto la vetta il sottotenente Picco irrompe con i suoi cinque alpini,
conquista la posizione, ma si prende una pallottola nel ventre e muore, accanto
a lui muoiono altri due soldati, il
nemico è comunque rigettato dal monte e in pochi minuti la cima ritorna
silenziosa.
Contemporaneamente
vi è l’attacco della 35° compagnia del Susa, capitano Varese, che conquista le
difese laterali del monte con un assalto frontale, sotto un fuoco micidiale, le
perdite sono maggiori, muore il sottotenente Vallero ma la conquista è rapida e
sicura.
Altra
azione è quella della 31° compagnia dell’Exilles, capitano Rosso, che sale
sulla neve all’attacco della colletta del Monte Nero, così presa da tre parti
con un’azione fulminea, “un colpo da maestro” come fu riconosciuto dagli stessi nemici.
La sera
il maggiore Treboldi, comandante del settore annunciava in prosa burocratica la
vittoria, seicento prigionieri , centotrentotto nemici morti accertati.
La
battaglia si estese al vicino Monte Rosso, più piccolo del Monte Nero dove
tuttavia vi furono attacchi e contrattacchi, bisognava difendere la conquista con
pochi mezzi, difficile risultava collocare i reticolati sulla roccia liscia,
poche le munizioni, scarsi i viveri, vi era una sola coperta per soldato con
una notte estremamente rigida.
Il
capitano Arbarello aveva dato ordine sulla cima ad ogni soldato di ammucchiare
davanti a sé più sassi possibili, nella notte salirono i bosniaci Arbarello
attese che fossero proprio sotto poi diede un ordine – Roc a la man, (sassi alla mano) – e dopo una pausa – Alè, fieui, (tirate figlioli) il nemico
non riuscì a porre piede sulla cima.
E per venirti a
conquistare
abbiamo perduto tanti
compagni,
tutti
giovani sui vent’anni,
la sua vita non torna
più.
La
montagna altissima sulla bassa valle, elettrica di roccia nuda, appena cambiava
il tempo era rigata da correnti crepitanti, bastava appoggiare il fucile alla
roccia per vederlo percossa da continue piccole scariche, nelle notti di
burrasca vi era un lampeggiamento senza tregua, si vedeva come di giorno.
Le
tormente di neve duravano ininterrotte per quattro o cinque giorni, obbligavano
gli uomini nel baracchino, seppellivano ogni ricovero, quando tornava il sereno
si cominciava a scavare nella neve fresca per cercarsi, c’era sempre qualcuno
che mancava all’appello.
Non su
questa montagna, ma sotto una valanga morì lo stesso capitano Arbarello
soffocato dalla massa nevosa che aveva schiacciato la sua baracca, prima di
morire il capitano scrisse sopra un pezzo di carta “Muoio asfissiato per
l’Italia. Ho fatto di tutto per salvare il mio tenente …” e qui cadde la penna.
Era
chiamato affettuosamente dai suoi alpini “papà”, burbero affettuoso quando
cominciavano a tremare dalla commozione i suoi baffoni neri, perché i soldati
non se ne accorgessero si metteva ad urlare con il suo vocione. Ad un ferito
che si lamentava per il freddo commosso gridava “non ti vergogni?” poi lo
copriva con la sua mantellina.
Ecco
perché un altro soldato ha aggiunto al manoscritto di Domenico Borella l’ultima
strofa
Il colonnello che
piangeva
a veder tanto macello:
fatti coraggio, alpino bello,
che l’onore sarà per
te.
Altipiani
Il
fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico,
finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu
annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale
Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi
ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.
La Strafeexpedition travolse l’intero
altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e
Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.
La
battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli
autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e
caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero
sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto
opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle
spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un
arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.
Si
giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo un lungo errare per camminamenti sconosciuti ,
ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto
immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre,
come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena
bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.
I
rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché
c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi
senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o
indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe
stato troppo duro riconquistare la cima.
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