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venerdì 8 novembre 2024

LE SETTE BATTAGLIE DELLA GRANDE GUERRA I Parte

 APPROFONDIMENTI


Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

                                                               (  Prima parte  )

 

Alta Montagna

           Quando si sale per un sentiero di montagna o un nevaio particolarmente difficile tra gli alpini della Grande Guerra vi era il detto “ Passa parola che la monta”, queste parole sono particolarmente confacenti alla guerra in alta montagna tra i 2200 e i 3700 metri di Monte Nero, Alpi di Fiamme, Tofàne, Monticelli, Poi Crozzon di Lares , Loccia Alta, Dosson di Genova, il Mantello ed il San Matteo, la più alta battaglia combattuta nella storia.

                Il 15 giugno del 1917 sul ghiacciaio di Lares gli sciatori del Capitano Calvi si esposero al fuoco delle mitragliatrici austriache per distrarre i difensori,  mentre gli alpini del battaglione Val Baltea scalarono il picco su una parete talmente liscia che bastava un solo tiratore austriaco per fermarli, finché arrivati in cima conquistarono il Corno di Cavento sorprendendone i difensori.

                Sul Passo della Sentinella e sulle posizioni di Cima Undici vi erano le baracchette su cengine incastrate fra le rocce tenute su con le funi, le finestrelle si spalancano sul vuoto mentre le porte possono diventare trabocchetti sull’abisso. 

                Il Piccolo Lagazuoi fu demolito tre volte il 23 maggio 1917 gli Austriaci fecero scoppiare la seconda mina che determinò il crollo di un suo superbo pinnacolo su cui vivevano aggrappati i plotoni alpini del Val Chisone.

                 Un giorno arrivò un ordine, tutti gli ufficiali scapoli del battaglione a turno dovevano andare in fondo ad una determinata grotta ogni giorno per un’ora, questo al fine di sentire se e come lavorava la perforatrice austriaca che stava preparando la camera di scoppio.

                La sorveglianza era pericolosa, si preferiva piuttosto andare all’attacco per crode e baranci in quanto gli austriaci anche se avevano finito il lavoro mantenevano in funzione la perforatrice per ingannare, così si aspettava con le orecchie sul geofono temendo un’esplosione da un momento all’altro.

                Fortunatamente dal Col di Lana gli italiani potevano osservare il rovescio delle posizioni nemiche e il giorno in cui non videro più lo sgombro dei materiali di scavo diedero l’allarme, essendo il lavoro di scavo finito. Si restò in attesa dello scoppio finale.

                La notte della mina appena cessò il rombo dell’esplosione e gli echi di valle in valle con sorpresa degli austriaci si udì suonare un’allegra fanfara alpina su per la cengia Martini, una beffa di guerra, come avveniva molte volte in questa lotta in alta montagna. Un caso analogo avvenne con il Capitano Rossi della 96°, Battaglione Antelao che fece squillare la fanfara per incoraggiare i suoi alpini nello scontro sul masaré di Fontananegra.

                Nel Piccolo Lagazuoi il presidio del Dente fu ritirato prima dello scoppio, rimasero sotto al crollo le poche sentinelle che guardavano la punta estrema della cengia, una volta avvenuto lo scoppio la compagnia che si era ritirata passò al contrattacco e alla baionetta ricacciò gli austriaci facendo suonare le trombe e i bombardini e cantando le canzoni degli alpini piemontesi: “Fieui  partouma, sentì le fanfare…” .

                La lotta era di pochi contro pochi, viso a viso, vedendo in faccia il nemico, per posizioni che a 3.000 metri bastavano un caporale e tre uomini oppure trenta tonnellate d’esplosivo e un anno di scavi, su pinnacoli tanto aguzzi che bisognava legarsi per dormire.

                Quando sulla Tofana di Rozes si riuscì a issare un cannone, al primo colpo, mentre alpini e serventi ne osservavano gli effetti sul fondo valle, il cannone lentamente incominciò a retrocedere finché fini per rotolare mille metri  più sotto, dove rimase fino a fine guerra.

                Le battaglie cominciavano solo dopo  ore di arrampicata sulla roccia, a furia di corde, picozze e chiodi nella muraglia, digiuni, infreddoliti, recando sulle spalle viveri, bombe e mitragliatrici, quando si era sull’orlo della cima si veniva coinvolti in una mischia mortale, nel caso delle mine queste erano precedute da studi minuziosi e scandagli lungo le pareti legati a corde pendenti nel vuoto.

                Questa tipologia di lotta spiega due cose, la personificazione che i soldati avevano degli elementi naturali entro cui si viveva prima ancora che contro il nemico, esseri soprannaturali e maligni che si dovevano combattere, inoltre in secondo luogo l’umile grado di questi “eroi” appartenenti tutti alle gerarchie inferiori.

                Talvolta agli scoppi si sovrapponevano i boati delle valanghe, masse enormi di neve slittavano dalle creste precedute da un freddo vento e nel precipitare di una nuvola di neve batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni interi erano seppelliti senza lasciare traccia, coloro che ne scampavano, tratti fuori dalla massa bianca, non potevano più sopportare coltri pesanti avendo l’incubo della soffocazione.

               

Monte Nero

 

Spunta l’alba del sedici giugno,

comincia il fuoco d’artiglieria,

il terzo alpini è per la via

Monte Nero a conquistar.

                Così comincia la canzone di gesta del Monte Nero, parole semplici, ritmo lamentoso, come nacque la sera dopo la battaglia, il testo originale fu scritto su un pezzetto di carta dall’alpino Domenico Borella che aveva partecipato alla battaglia.

                Come coloro che partecipando ad una battaglia non si accorgono del mito che su di essa si forma Borella intitolò così la sua creazione : Cansone omoristica del 3° Reggimento Alpini alla conquista del Monte Nero.

Quando fummo a trenta metri

dal nemico ben trincerato,

un assalto disperato

il nemico fu prigionier.

                L’attacco al Monte Nero avvenne ad opera della 84° compagnia dell’Exilles, capitano Arbarello, che si arrampicò per l’esile costone Sud-Ovest del monte, in fila indiana rapidi e silenziosi su rocce a picco.

                In testa vi era il sottotenente Picco con cinque alpini, veniva dietro il capitano Arbarello con un plotone di cinquanta uomini a cui seguivano quale rincalzo altri due plotoni, fucile a tracollo, tascapane con viveri e cartucce, niente bombe a mano in quanto si era all’inizio della campagna e le bombe a mano le avevano solo i nemici.

                Poco sotto la vetta il sottotenente Picco irrompe con i suoi cinque alpini, conquista la posizione, ma si prende una pallottola nel ventre e muore, accanto a lui muoiono altri due soldati,  il nemico è comunque rigettato dal monte e in pochi minuti la cima ritorna silenziosa.

                Contemporaneamente vi è l’attacco della 35° compagnia del Susa, capitano Varese, che conquista le difese laterali del monte con un assalto frontale, sotto un fuoco micidiale, le perdite sono maggiori, muore il sottotenente Vallero ma la conquista è rapida e sicura.

                Altra azione è quella della 31° compagnia dell’Exilles, capitano Rosso, che sale sulla neve all’attacco della colletta del Monte Nero, così presa da tre parti con un’azione fulminea, “un colpo da maestro” come fu riconosciuto   dagli stessi nemici.

                La sera il maggiore Treboldi, comandante del settore annunciava in prosa burocratica la vittoria, seicento prigionieri , centotrentotto nemici morti accertati.

                La battaglia si estese al vicino Monte Rosso, più piccolo del Monte Nero dove tuttavia vi furono attacchi e contrattacchi, bisognava difendere la conquista con pochi mezzi, difficile risultava collocare i reticolati sulla roccia liscia, poche le munizioni, scarsi i viveri, vi era una sola coperta per soldato con una notte estremamente rigida.

                Il capitano Arbarello aveva dato ordine sulla cima ad ogni soldato di ammucchiare davanti a sé più sassi possibili, nella notte salirono i bosniaci Arbarello attese che fossero proprio sotto poi diede un ordine – Roc a la man, (sassi alla mano) – e dopo una pausa – Alè, fieui, (tirate figlioli) il nemico non riuscì a porre piede sulla cima.

 

E per venirti a conquistare

abbiamo perduto tanti compagni,

                                                                                    tutti giovani sui vent’anni,                                              

la sua vita non torna più.

                La montagna altissima sulla bassa valle, elettrica di roccia nuda, appena cambiava il tempo era rigata da correnti crepitanti, bastava appoggiare il fucile alla roccia per vederlo percossa da continue piccole scariche, nelle notti di burrasca vi era un lampeggiamento senza tregua, si vedeva come di giorno.

                Le tormente di neve duravano ininterrotte per quattro o cinque giorni, obbligavano gli uomini nel baracchino, seppellivano ogni ricovero, quando tornava il sereno si cominciava a scavare nella neve fresca per cercarsi, c’era sempre qualcuno che mancava all’appello.

                Non su questa montagna, ma sotto una valanga morì lo stesso capitano Arbarello soffocato dalla massa nevosa che aveva schiacciato la sua baracca, prima di morire il capitano scrisse sopra un pezzo di carta “Muoio asfissiato per l’Italia. Ho fatto di tutto per salvare il mio tenente …” e qui cadde la penna.

                Era chiamato affettuosamente dai suoi alpini “papà”, burbero affettuoso quando cominciavano a tremare dalla commozione i suoi baffoni neri, perché i soldati non se ne accorgessero si metteva ad urlare con il suo vocione. Ad un ferito che si lamentava per il freddo commosso gridava “non ti vergogni?” poi lo copriva con la sua mantellina.

                Ecco perché un altro soldato ha aggiunto al manoscritto di Domenico Borella l’ultima strofa

Il colonnello che piangeva

a veder tanto macello:

fatti coraggio, alpino bello,

che l’onore sarà per te.

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                          Altipiani

 

                Il fronte sugli altipiani era considerato tranquillo rispetto al fronte carsico, finché l’offensiva austriaca della primavera 1916 lo travolse, questa fu annunciata da una serie di grandi bombardamenti che, come scrive il generale Schiarini, furono “di una violenza sorprendente e, per confessione degli stessi ufficiali italiani, di un effetto veramente schiacciante.

                La Strafeexpedition travolse l’intero altipiano fino ad essere arginata sui quattro pilastri di: Monte Fior e Castelgomberto, Novegno, Zovetto e Lèmerle, Pasubio.

                La battaglia avvenne allo scoperto senza ripari e difese preparate, salivano gli autocarri colmi di truppe, le scaricavano alle spalle dei combattimenti e caricati i feriti ripartivano immediatamente. Se gli austriaco avessero sfondato l’ultima linea di difesa, la racimolata Quinta Armata avrebbe potuto opporre ben poca resistenza al dilagare dei reparti nemici che, piombati alle spalle dell’esercito schierato sull’Isonzo, avrebbero costretto ad un arretramento oltre il Piave fino al Po e al Mincio.

                Si giungeva nella battaglia dopo marce estenuanti, dopo  un lungo errare per camminamenti sconosciuti , ci furono truppe, come la brigata Alessandria, lanciate all’assalto immediatamente dopo trenta ore di viaggio ininterrotto sugli autocarri, altre, come la brigata Lombardia venivano trasferite dalla primavera friulana in piena bufera di neve, senza coperte, senza zaino, senza tende.

                I rincalzi venivano a fondersi immediatamente con le truppe già in linea, finché c’era un simulacro di comando e un brandello di battaglione si resisteva, fermi senza ripari sul monte, o avanti a riconquistare la posizione persa, o indietreggiando adagio per non discendere troppo in basso, da dove sarebbe stato troppo duro riconquistare la cima.

                                                                                                                          


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