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sabato 9 luglio 2016

Energia, le nuove prospettive europee dopo la Brexit

Brexit
Il divorzio di Londra e il futuro dell’energia Ue
Lorenzo Colantoni, Nicolò Sartori
07/07/2016
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La Gran Bretagna è il terzo mercato dell’Unione europea per consumi primari di energia, alle spalle di Germania e Francia, e il primo produttore di idrocarburi all’interno dell’Ue.

Il paese è collegato fisicamente al continente europeo grazie a elettrodotti e gasdotti che lo interconnettono al mercato unico dell’energia - il cui completamento è ancora in divenire - garantendo il flusso di elettricità e gas all’interno dell’Unione.

In virtù di questo, la Gran Bretagna ha storicamente giocato un ruolo di primo piano - non necessariamente positivo, però - nella definizione delle politiche energetiche in seno all’Ue.

Alla luce del referendum dello scorso 23 giugno, è possibile pensare che la Brexitmetta a rischio il futuro del mercato unico dell’energia e, soprattutto, lo sviluppo dell’Energy Union, in un momento in cui l’iniziativa deve ancora consolidarsi?

Dopo Brexit, a rischio l’Accordo di Parigi
I prossimi mesi saranno quelli più problematici a causa dell’ancora forte incertezza legata al destino del Regno Unito che, con una confusa politica domestica e senza aver attivato ancora l’articolo 50, non ha una chiara posizione all’interno dell’Ue.

Questo rischia di provocare uno stallo della politica energetica europea in un momento in cui la Commissione sta lavorando su temi chiave e in cui il Regno Unito ha spesso un ruolo primario.

Si pensi alla effort sharing decision, in cui proporrà gli obiettivi nazionali per il raggiungimento di quelli europei su clima ed energia al 2030, oppure alla nuova Direttiva sulle rinnovabili, al futuro dell’Emission Trading System (che il Regno Unito supporta) e ad un potenziale aumento dell’obiettivo di efficienza energetica (che il paese ostacola).

Oltre alla difficoltà di portare avanti i procedimenti normativi senza sapere quale sarà il reale posizionamento della Gran Bretagna quando le misure verranno implementate, non è da escludere la minaccia dell’ostruzionismo che il paese potrebbe fare per ottenere una posizione migliore nell’uscita dall’Ue.

Un ulteriore rischio riguarda la ratifica dell’Accordo di Parigi firmato al termine della COP21 che contiene elementi a livello nazionale ed europeo. Ad esempio, poiché l’Intended Nationally Determined Contribution (Indc) per l’Ue è unica, e la ripartizione nazionale andrà fatta secondo la effort sharing decision, è probabile che l’azione europea subirà ritardi a causa della Brexit.

Sebbene l’Accordo potrebbe già entrare in forza con la ratifica del 55% dei suoi firmatari - e quindi potenzialmente senza il contributo dell’Ue - un eventuale ritardo rischia di sovrapporsi con le elezioni americane di novembre 2016. Una delle promesse di Trump è quella di uscire dall’accordo come Bush junior fece con il Protocollo di Kyoto nel 2001.

Il futuro: un’Energy Union più snella?
Sebbene ancora incerte, le prospettive per il medio e lungo periodo potrebbero tendenzialmente avere effetti più positivi. Se da un lato l’Ue rischia di perdere una parte consistente del mercato dell’energia europeo e un partner fondamentale in progetti come la North Sea grid, la super rete di interconnessione tra i campi eolici nel Mare del Nord, non mancano elementi di possibile ottimismo.

L’energia, infatti, è stato uno dei settori dove il Regno Unito è stato forse più di ostacolo che di sostegno al processo di integrazione europea: è un forte sostenitore dei capacity markets, al momento oggetto di un’indagine da parte del DG Competition, e non ha di certo favorito lo sviluppo di interconnessioni con il resto dell’Europa.

Pur presentandosi come un climate champion, Londra ha ostacolato l’obiettivo di efficienza energetica, concordato infine nel Pacchetto 2030 e ha invece sostenuto la costruzione della centrale nucleare di Hinkley Point C che, pur approvata dalla Commissione, rischia di rappresentare un pericoloso caso di aiuto di stato, contro i quali si sono già schierati in molti, Germania per prima.

Se l’Ue riuscisse a gestire positivamente la transizione nel breve periodo, possibilmente negoziando un accesso reciproco e completamente libero ai mercati dell’energia europei e britannici, la Brexit potrebbe in realtà snellire l’andamento della politica energetica europea.

Boomerang scozzese?
Le implicazioni potenzialmente più significative della Brexit, tuttavia, potrebbero riguardare direttamente il destino energetico di Londra. Come dimostrato dai dati del referendum e sottolineato dal Primo Ministro scozzese Nicola Sturgeon, la Scozia sarebbe infatti pronta a distaccarsi dal Regno di Sua Maestà per unirsi al gruppo dei 27.

Nel caso in cui questa eventualità dovesse materializzarsi, Edimburgo si porterebbe nell’Unione una dote ‘energetica’ di tutto rispetto. Ad oggi la Scozia contribuisce al 78% della produzione di idrocarburi del Regno Unito, e nella sua piattaforma continentale vengono prodotti il 96% del petrolio e il 52% del gas offshore britannici. In base a questi dati, pur da sola, la Scozia rimarrebbe il primo produttore di idrocarburi dell’Ue.

Questa eventualità avrebbe un chiaro impatto non solo sulla sicurezza degli approvvigionamenti di Londra, che perderebbe il controllo su risorse finora considerate “nazionali”, ma avrebbe notevoli implicazioni anche dal punto di vista fiscale/finanziario.

L’industria energetica scozzese contribuisce in modo significativo alle casse britanniche: secondo le stime del governo di Edimburgo, negli anni del boom dei prezzi petroliferi (2011-2012), e prima degli sgravi fiscali sulle attività energetiche introdotti dal governo Cameron, il settore degli idrocarburi scozzese versava oltre 10 miliardi di sterline di tax revenues, pari a quasi 95% del gettito settoriale totale del Regno Unito.

L’eventuale effetto a catena Brexit-secessione, tuttavia, potrebbe creare una situazionelose-lose tanto per Londra che per Edimburgo. Il settore petrolifero del Mare del Nord è già in profonda crisi a causa di alti costi, prezzi depressi e investimenti decrescenti: un periodo protratto di instabilità politica potrebbe rischiare di affossarlo in modo quasi irreparabile, a discapito di tutti gli attori in gioco. E l’incertezza è l’unico elemento certo di tutta la questione Brexit.

Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI –Twitter@colanlo.
Nicolò Sartori è responsabile di ricerca e coordinatore del Programma Energia dello IAI
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