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lunedì 13 aprile 2020

Duecento anni di buona cucina


DIBATTITI
Una storia esemplare: 
merito e imprenditoria di
Pellegrino Artusi
 di Alessia Biasiolo

Nell’agosto 1820, duecento anni fa, nacque Pellegrino Artusi, l’autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, caposaldo della letteratura gastronomica italiana, datato 1891.
Pellegrino Artusi, nato nell’allora Stato Pontificio, aveva ricevuto studi irregolari perché il padre lo voleva avviare all’attività familiare di commerciante e, secondo lui, per quel lavoro non servivano tanti studi. Artusi non fu d’accordo con quel punto di vista, rendendosi invece conto che un’istruzione solida e ampia “in qualunque caso è sempre giovevole”. Quindi, pur vendendo stoffe e spezie, Pellegrino viaggiò e si istruì.
Nel 1851, il famoso brigante detto il Passatore (Stefano Pelloni), aggredì Forlimpopoli dove la famiglia Artusi viveva e aveva la propria attività, e penetrò in casa loro con i propri sgherri. Pellegrino venne picchiato mentre i ladri razziavano ogni cosa e le donne di casa vennero violentate, tra cui sua sorella. Per questo motivo tutta la famiglia si trasferì nella più sicura Firenze, allora nel Granducato di Toscana. Gli Artusi continuarono a vendere stoffe, anche di seta, e in breve tornarono molto ricchi. Nel giro di pochi anni, Firenze divenne capitale del Regno d’Italia e Pellegrino decise di ritirarsi a vita privata per godere delle sue fortune ma, soprattutto, anche per potersi dedicare a ciò che amava di più: gli studi classici e le Belle Lettere. Scrisse testi su autori italiani, ma il suo diletto era la cucina e così nacque il suo capolavoro indiscusso.
In Italia l’Artusi è citato come Dante, secondo Alberto Capatti, perché nel suo libro sono raccolte le tradizioni culinarie di un Paese ricco e complesso in tal senso, ma soprattutto si tratta di un volume scritto bene, in italiano semplice e puro. Gli stessi Benedetto Croce e Giovanni Gentile lo citeranno in una corrispondenza privata.
La grande operazione di Artusi fu proprio di scrivere in Lingua Italiana per un Paese che si era unificato territorialmente quasi del tutto, ma viveva di lingue differenti, come erano diversi i territori politici che lo componevano fino a pochi anni prima. Pertanto leggere un libro di ricette e di arte della buona tavola scritto in modo fluido e facilmente leggibile, fece sì che intorno alla tavola, veramente, ci si unisse.
Altra operazione interessante di Artusi fu quella di non voler creare una cucina nazionale, intorno a dei piatti specifici e tradizionali, come aveva fatto la Francia con i suoi grandi cuochi: i cugini d’Oltralpe codificarono le ricette, spiegarono come si doveva o non doveva cucinare e soprattutto cosa, offrendo nei propri ricettari metodi oggettivi a cui il lettore si doveva attenere. La rivoluzione francese di fine Settecento, aveva portato alla caduta della monarchia e i cuochi di corte necessariamente dovettero abbandonare il proprio comodo lavoro per cercare di sbarcare il lunario alla bell’e meglio: non era possibile offrire alla gente comune, in un periodo di penuria di soldi e di cibo, pietanze raffinate e molto elaborate come a corte, ma senz’altro ogni cuoco portò con sé l’eleganza e la scrupolosità della tecnica, tanto da permettere il miglioramento della cucina offerta dai primi ristoranti pubblici, diffondendo pian piano l’arte della buona tavola tra tutti i cittadini.
Così durante la Belle Epoque, la rivoluzione culinaria francese proseguì grazie al grande cuoco Georges Auguste Escoffier che, con Césare Ritz, avviò il connubio tra alta ristorazione e alberghi di lusso. Escoffier ridusse gli ornamenti della gastronomia francese, semplificò le tecniche di cottura ma le allungò anche, eliminò gli zoccoli di presentazione dei cibi ma le arricchì in sontuosità, come arricchì i menù di paté, terrine, soufflé, potage, molte salse, finiture dei piatti con burro e panna. Innovò anche l’organizzazione di cucina creando la brigata, in cui i compiti erano ripartiti per razionalizzare il lavoro, renderlo più efficace ed efficiente, garantendo il miglior servizio al cliente.
La “grande cucina francese” venne detta “classica” o “internazionale”, diffusa negli alberghi prestigiosi, sulle navi da crociera e i treni di lusso, aiutata nella sua concretizzazione dall’invenzione e diffusione degli elettrodomestici come il frigorifero, il forno a gas, la gelatiera; non furono da meno le nuove tecniche di conservazione come la pastorizzazione, la disidratazione e la conservazione in scatola che, soprattutto negli Stati Uniti, rivoluzionò l’utilizzo di verdure e carne (più conservabile, commercializzabile e che si manteneva più a lungo rispetto ad altre tipologie di conservazione).
Sempre nell’Ottocento, poi, nacquero nuovi prodotti come la margarina, gli estratti per brodo di carne, le bibite gassate e tutto questo portò un notevole mutamento nei consumi e nei costumi.
Il termine gastronomia, nato dai termini greci gaster e nomia, cominciò a non indicare più solo le “leggi dello stomaco”, ma assunse sempre più un significato ampio, in cui l’abbinamento degli alimenti e la loro conoscenza anche chimico-fisica avevano un’importanza pari alla capacità di preparazione delle pietanze. Appunto, poi, venero codificate le ricette: ogni piatto aveva la sua modalità corretta di preparazione e ciascuno che ci si voleva cimentare vi si doveva attenere.
Artusi, invece, nel suo lavoro raccontava soltanto la cucina italiana, con pietanze ricche per ogni angolo del Paese e, soprattutto, così legate alla singola realtà che sarebbe stato impossibile darne regole uniformi in tutto il territorio. Questa fu la fortuna del libro, molto amato e punto di riferimento per la gastronomia, oltre che tradotto in molte lingue straniere. Ancora oggi, con i tanti famosi chef che popolano il nostro immaginario e il nostro quotidiano, Artusi è un punto di riferimento proprio per il suo sapere non omologato e rispettoso del particolare.
Eppure Artusi dimostra, ancor oggi, di essere moderno: infatti, un’intervista svolta su un campione di 1800 italiani ha dichiarato, in larga maggioranza (93%), di avere come riferimento per il proprio concetto di cucina tradizionale, casalinga, le pietanze cucinate dalla nonna, lamentando che non è più possibile realizzarle sia perché non si trovano più gli stessi ingredienti (57%) di un tempo, sia perché quasi più nessuno è capace di cucinare alla stessa maniera (77%). I ricordi principali si focalizzano sulla pasta fatta in casa a mano e sui sughi corposi. E qui il nostro esplicita un’altra sua intuizione.
Artusi per il suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” si fece inviare contributi da lettori e lettrici che gli fornirono ben 475 ricette per la prima edizione, diventate 790 per l’ultima di vent’anni più tardi, rifinita nei dettagli e negli aggiustamenti.
Nella sua opera, Artusi identificò il ruolo centrale della pasta nell’alimentazione italiana, pasta che avrà un ruolo essenziale nella Dieta Mediterranea e nella sua codificazione, e riconobbe il lato positivo di quel “fai da te” e della personalizzazione che metteranno le basi per la grande gastronomia italiana, conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo.
Ogni ricetta doveva comprendere gli usi caratteristici, possibilmente mescolati della varie aree regionali italiane. Ad esempio, secondo il ricettario di Artusi, i maccheroni si preparano con “pasta, pomodori sbucciati tagliati a pezzi e nettati dai semi, basilico, sale e pepe” provenienti dal Sud, ai quali vanno aggiunti gli ingredienti del Nord, pertanto i maccheroni vanno poi conditi con burro crudo e parmigiano. Per cucina nazionale italiana, quindi, si intende oggi una cucina più semplice di quella classica, composta però da alimenti della tradizione locale e offerta, di solito, da ristoranti e trattorie piuttosto informali.
Molto interessante sarà anche la testimonianza di Pellegrino Artusi riguardante l’epidemia di colera che colpì Livorno nel 1855. Un tempo le epidemie erano ricorrenti e il nostro si trovava proprio a Livorno per gli usuali bagni, quando cominciò a manifestare strani tormenti di pancia. Lo scrittore li attribuì, forte della propria ferratezza gastronomica, all’aver mangiato un minestrone la sera prima, ma scoprì, una volta rientrato a Firenze dove abitava, che il suo ospite livornese era stato infettato dalla terribile malattia contagiosa. Per tutta risposta, Artusi capì che era meglio scrivere una personale ricetta del minestrone.



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