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mercoledì 2 ottobre 2019

Campagna d'Italia Il Fronte meridionale del Reich

APPROFONDIMENTI
Osservazioni critiche sulle 
operazioni del 1943-1945 

La situazione delle truppe tedesche in Italia





Giovanni Cecini


 La guerra parallela dell’Italia fascista, divenuta in breve guerra subalterna della Germania nazista, mostra con particolare drammaticità il perenne e malcelato senso d’insofferenza e sospetto, che regnava tra i due alleati dell’Asse. Per questi motivi, al pari del clima di sfiducia regnante tra Vienna e Berlino a partire dal 1916 per via di una possibile richiesta austriaca di pace, questa volta nel bel mezzo del Secondo conflitto mondiale Roma veniva tenuta sotto osservazione dall’Alto comando germanico, dai funzionari e dagli agenti del servizi segreti nazisti in relazione a un possibile tradimento italiano.
Rispetto agli anni del massimo consenso, a seguito dell’entrata in guerra e dell’immediata serie di cocenti sconfitte, a partire dall’autunno del 1940 Mussolini si sentì franare la terra sotto ai piedi nel gioco dell’autorevolezza interna ed esterna. In tale logica va intesa quindi la preoccupazione che Hitler e i suoi generali iniziarono a nutrire nei confronti della sorte dell’imprudente Duce e del suo regime. Il Führer aveva una fiducia quasi cieca per il vecchio maestro, ma possibili disgrazie politiche, come una sollevazione popolare o il ripristino delle prerogative costituzionali da parte del re e imperatore, appoggiato dai sempre più insofferenti capi militari, rappresentavano una rischiosa incognita sulla prosecuzione dello sforzo bellico dell’Italia. Alle basi di questi forti timori vi erano non tanto quindi ragioni tattico-operative, vista la sostanziale inaffidabilità del contributo militare italiano, quanto motivazioni strategiche, considerato che uno sganciamento di Roma avrebbe pericolosamente aperto il fianco mediterraneo a una probabile e rapida avanzata continentale degli Anglo-americani.
Lo stesso Mussolini, consapevole che gli equilibri politici interni erano sempre sul punto di lacerarsi, in un frammisto di autocompatimento e desiderio di rivalsa continuò a chiedere con insistenza a Hitler truppe e materiali da poter impiegare sui fronti interessati dalle Regie Forze Armate. Durante l’incontro avvenuto ai primi di aprile del 1943 nel castello di Klessheim, presso Salisburgo, il Duce consigliò di giungere ad un armistizio con i sovietici per concentrare tutte le forze contro le democrazie occidentali. Il Führer non volle sentir ragioni, convinto che l’avamposto tunisino sarebbe stato un baluardo insormontabile, da dove l’Asse avrebbe riguadagnato tutti i territori perduti in Africa, tanto da risollevare le sorti della guerra.
Per tali motivazioni a partire da quel momento la presenza germanica nella Penisola crebbe a dismisura, paventando non tanto uno stanziamento difensivo di supporto alle operazioni oltremare, ma quasi una velata invasione preparatoria di una prossima occupazione vera e propria.
Infatti sin dalla primavera del 1943 l’Alto comando tedesco pianificò con precisione varie azioni, tutte rivolte a trovare il massimo vantaggio dal probabile mutamento di scenario diplomatico-militare. L’intervento più importante sarebbe stato la combinazione tra l’operazione “Alarico”, destinata a far affluire «in punta di piedi» una ventina di divisioni tedesche, e quella denominata “Asse”, rivolta a mettere fuori combattimento la timida Italia, catturarne gli uomini e i mezzi, occuparne i presidi e formare un nuovo governo fascista, epurato dei retaggi monarchici. Per il comando di tutta l’azione fu scelto il feldmaresciallo Erwin Rommel, che aveva dato ampia prova di ardimento e capacità innovativa e che per la sua storia personale, seppur comandante effettivo degli italiani in Tripolitania e in Cirenaica, nutriva nell’animo sfiducia e sospetto per le Regie Forze Armate.
Ecco perché all’indomani della caduta del fascismo, per nulla rassicurati dalle ambigue dichiarazioni del nuovo capo del Governo, il maresciallo Pietro Badoglio, i Tedeschi si trovarono preparati e pronti ad intervenire, qualsiasi sviluppo potesse profilarsi all’orizzonte.
Quando ancora la linea tra l’Asse e gli Alleati era rappresentata dal canale di Sicilia, venne predisposto l’invio di nove divisioni tedesche per quest’opera di contenimento; intervento aggiuntivo avvenne a partire dal 26 luglio 1943, quando attraversando le Alpi un’altra decina di divisioni venne trasferita dalla Francia meridionale, dalla Carinzia e dal Tirolo. Notevole importanza rivestirono le unità dislocate nella zona di Roma (circa 30 mila uomini), coordinate da una fitta rete informativa e politica, e da quelle operanti in Sardegna e in Corsica, predisposte a una decisa difesa costiera.
Berlino si trovò però nella situazione che alcuni generali di stanza in Italia, come il feldmaresciallo Albert Kesselring e il generale Enno von Rintelen, nonché l’ammiraglio Wilhelm Canaris, comandante dello spionaggio militare germanico, avevano una profonda simpatia e fiducia negli italiani, fattore che avrebbe impedito un’azione preventiva adeguata e efficace. Lo stesso Canaris, tra i promotori del successivo fallito attentato al dittatore austriaco del 20 luglio 1944, a latere dell’incontro dei primi di agosto a Venezia, espresse all’omologo generale Cesare Amé la sua approvazione per il cambio istituzionale, ma anche molta preoccupazione per gli inevitabili interventi che il Führer avrebbe prima o poi realizzato, per evitare che la situazione italiana gli sfuggisse di mano.
Per tutti questi motivi, anteponendo le ragioni politiche a quelle militari, Hitler nello scenario futuro della Penisola preferì assecondare il pessimismo dello stimato Rommel, piuttosto che l’eccentrico ottimismo di Kesselring, ritenuto per questo manovrabile dagli italiani. L’impostazione del Führer fu quella di far concentrare sull’Appennino settentrionale il Gruppo d’Armate “B” assegnate alla “Volpe del deserto”, che ebbe il suo comando prima in Baviera e poi sul lago di Garda, relegando Kesselring dalla sua sede operativa di Frascati a un’azione frenante nel Mezzogiorno, poco più che temporanea in vista della resa dei conti al nord. Azione primaria del piano sarebbe stata poi quella assegnata al fidato generale dei paracadutisti Kurt Student: l’occupazione preventiva di Roma con la messa a tacere del sovrano, dei vertici militari e del Vaticano.
Di fronte a un tradimento, la reazione germanica sarebbe stata quindi: il presidio armato di tutti i territori precedentemente difesi dagli Italiani e il disarmo o la cattura di questi ultimi, qualora non avessero espresso la loro chiara e fattiva intenzione di collaborare con la politica del Reich. Pur tuttavia una volta ottenuti questi successi, la linea da presidiare doveva essere arretrata tanto da mantenere il possesso della sola pianura Padana e dell’arco alpino, augurando di ottenere successo partendo dalla corta linea dei rifornimenti.
Sperando nel fanatismo di molti fascisti e pronta ad utilizzare l’inganno e l’intimidazione, Berlino creò ogni presupposto per recuperare ogni energia e risorsa alla causa dell’Asse. In effetti questo fu quel che avvenne, secondo un canovaccio già recitato, dove gli Italiani svolsero il ruolo di ipocriti infedeli e i Tedeschi quelli di insofferenti traditi e desiderosi di un’atroce vendetta.
In tutto ciò emerse una perfida approssimazione e un spirito malizioso delle istituzioni politiche e militari italiane. La defenestrazione di Mussolini avvenne secondo una procedura “regolare”, secondo i dettami elastici delle consuetudini costituzionali del Regno, e senza grossi contraccolpi nazionali. Non si può dire lo stesso della gestione diplomatica e militare del periodo successivo, che portò i Tedeschi ad avallare le proprie convinzioni che la caduta del fascismo avrebbe rappresentato la fine dell’inscindibile Patto d’acciaio. La commedia degli inganni, che intercorse tra governo Badoglio, comando Ambrosio e vertici germanici, evidenziò non solo la malafede esistente tra tutti i soggetti interessati, ma la cauta meticolosità di strategia dei tedeschi contrapposta alla politica disorganica delle istituzioni italiane, incapaci di pianificare in modo univoco i possibili ed eventuali sviluppi di una situazione così delicata e pericolosa.
La difesa della Sicilia, nel luglio del 1943, fu il banco di prova delle successive azioni tedesche, se finanche il territorio nazionale venne difeso dalle Forze Armate italiane con molto ardimento, ma prive di elementi e materiali sufficienti. In controtendenza invece le formazioni della Wehrmacht, sempre più cospicue e capillari nella Penisola, dimostrarono un’abilità e una fermezza nell’opposizione agli Alleati, tanto da riuscire, dopo la ritirata, almeno a far reimbarcare la quasi totalità dei reparti in una sorta di Dunkerque a parti inverse nello stretto di Messina.
In quella circostanza l’iniziale strategia di Kesselring, artefice di tutta quella che sarà la campagna difensiva d’Italia, partì proprio dalla convinzione che, nell’impossibilità di resistere a un’invasione su larga scala, la reazione contro gli Alleati doveva essere immediata, rivolta alla cacciata dei nemici direttamente sulle spiagge. L’operazione fallì, ma permise altresì ai Tedeschi di imparare una fondamentale lezione: cogliere la geografia dell’Italia e l’imminente confusione istituzionale italiana per avvantaggiarsi su una difesa elastica per tappe successive ad oltranza (simile per certi versi all’esperienza sovietica) del territorio della Penisola, anche avvantaggiandosi delle evidenti reticenze degli Anglo-americani ad azioni troppo azzardate e profonde. Infatti, trasferiti lo spregiudicato generale Patton e il fortunato generale Montgomery nella preparazione dell’invasione della Francia, gli Alleati in Italia erano privi di genialità creative, interessati solo ad operazioni militari accademiche e prevedibili.
(Continua Post in data 21 settembre 2019) 

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