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venerdì 6 gennaio 2017

Convegno CESVAM: Roma 3 febbraio 2017. Albania.

NOTIZIE CESVAM
 Il CESVAM 
organizza 
per il 3 Febbraio 2017, su una intera giornata
all'Istituto "Antonio Gramsci" di Roma
un convegno nell'ambito del Progetto
 "Il Valore dei Soldati Italiani in Albania. 
Il Contributo Italiano alla nascita dello Stato Albanese.


Il CONVEGNO,*
 ho come tema 
I Soldati Italiani in Albania: da occupatori a combattenti per la Libertà


Si riporta, in anteprima parte della Relazione di Massimo Coltrinari dal titolo

 “L'Albania e la crisi armistiziale italiana. Settembre ottobre 1943

Al momento dell’Armistizio 33 divisioni italiane, con circa 600 mila uomini, si trovavano fuori d’Italia, impegnate nell’occupazione dei Balcani, la Grecia e le isole dell’Egeo. Esse erano disseminate per un territorio molto ampio, con presidi spesso isolati e senza collegamenti, con compiti di difesa delle coste e di lotta ai partigiani locali, molto attivi in diverse aree. Fra le truppe italiane nei Balcani erano molto forti i sentimenti di stanchezza per la guerra, acuiti dalle continue offensive dei partigiani e dai rapporti di reciproca diffidenza con l’alleato tedesco, che man mano prendeva possesso di aree prima controllate esclusivamente da unità italiane. In molte zone era diffusissima la malaria, e il disagio dei soldati era accresciuto dallo scarso vitto e da un vestiario inadeguato. E’ opportuno ricordare che già all’atto dell’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, la situazione del Regio Esercito, per quanto riguarda l’armamento e i materiali, era particolarmente carente. In particolare: l’armamento (pezzi di artiglieria e carri armati) era obsoleto e inadeguato, gli automezzi erano numericamente insufficienti, le uniformi erano di pessima qualità, mancavano gli equipaggiamenti e le attrezzature adatte alle aree dove si sarebbe operato (Africa, Russia, e appunto nei Balcani). Lasciate totalmente all’oscuro dell’evoluzione della situazione in Italia, le divisioni italiane nei Balcani e nell’Egeo furono prese di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, di cui per lo più vennero a conoscenza attraverso la radio. Dappertutto i soldati accolsero con scene di entusiasmo la notizia della resa dell’Italia, mentre gli Ufficiali si resero subito conto della gravità della situazione in cui si trovavano, senza alcuna preparazione o direttiva da seguire. Inutili i tentativi di avere ordini da Roma, difficili e spesso impossibili anche le comunicazioni tra le varie divisioni e tra i reparti delle stesse divisioni. Queste ultime ebbero vicende molto diverse tra loro, a seconda delle circostanze e dell’iniziativa dei singoli comandanti. Molti comandi di divisione, completamente abbandonate a se stesse, preferirono dare l’ordine di accettare la resa piuttosto che rischiare opponendo resistenza. La cronaca di quegli avvenimenti registra episodi che oggi appaiono addirittura incredibili ma che invece si verificarono non in un solo caso. Plotoni o compagnie tedesche che in presidi costituiti da un battaglione italiano o forze superiori, colti di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, si presentavano ai comandi italiani affinchè consegnassero le armi ma di fronte all’indecisione dei nostri comandanti ugualmente sorpresi, finivano per assumere immediatamente l’iniziativa e disarmare tutto il presidio italiano. In una tale situazione di caos, come è facilmente intuibile, la maggior parte delle unità si arrese quasi subito; altre cercarono di trattare la consegna delle armi con la speranza di ottenere il rimpatrio; poche accettarono l’alternativa offerta dai tedeschi di continuare a combattere al loro fianco. Una volta disarmate le unità italiane, i tedeschi non mantennero gli impegni presi e le internarono sul posto o le spedirono in Germania. Peraltro vi furono diversi reparti che si rifiutarono di ubbidire a un ordine che consideravano contrario al loro onore di soldati e alle direttive impartite dal governo del re. La prima e più ampia resistenza nacque tra questi militari, prima che tra i civili; una scelta tanto più difficile perché minoritaria, compiuta in un territorio ostile, e votata fin dall’inizio alla sconfitta.
Nel settembre del 1943 in Albania si trovavano circa 130 mila soldati del Regio Esercito italiano, la maggior parte dei quali inquadrati in 6 divisioni di fanteria (Lastrina 1): la Arezzo, Brennero, Firenze, Parma, Perugia e Puglie, tutte appartenenti alla 9^ Armata, comandata dal Generale Lorenzo Dalmazzo, con sede del comando a Tirana. Più precisamente:
         La divisione di fanteria “Perugia”, era comandata dal generale Ernesto Chiminello, con sede del comando a Argirocastro;
         La divisione di fanteria “Parma”, era comandata dal generale Enrico Lugli, con sede del comando a Valona;
         La divisione di fanteria motorizzata “Brennero”, era comandata dal generale Aldo Princivalle, con sede del comando a Sassobianco;
         La divisione di fanteria “Arezzo”, era comandata dal generale Arturo Torriano, con sede del comando a Torcia;
         La divisione di fanteria “Firenze”, era comandata dal generale Arnaldo Azzi, con sede del comando a Dibra;
         La divisione di fanteria “Puglie”, era comandata dal generale Luigi Clerico, con sede del comando a Prizren.
Tali divisioni, come quelle dislocate sul territorio italiano, erano dette “binarie”, cioè composte da 2 reggimenti di fanteria ed un reggimento di artiglieria, più dei reparti minori con funzioni di supporto operativo e logistico (un btg. mortai, una comp. artiglieria anticarro, una comp. genio e una telegrafisti/marconisti e diverse sezioni). Ogni divisione risultava composta da circa 13 mila uomini, equipaggiati con pezzi di artiglieria, mortai e mitragliatrici. Per il trasporto utilizzavano muli, carri, motocicli e mezzi di vario genere.
Dal comando della 9^ Armata dipendevano anche i reparti della Milizia volontaria albanese ed unità di altre Forze Armate. Questo comando seppe della conclusione dell’armistizio prima di averne avuto notizia ufficiale. Risulta infatti che alle 18 dell’8 settembre il servizio “I” di armata ne era venuto a conoscenza attraverso radio Ankara. Il Gabinetto del Ministero della guerra, interpellato telefonicamente, dapprima smentì e poi dopo qualche ora diede conferma. Soltanto nella tarda serata dell’8 arrivò l’ordine 24202 con cui il Comando Supremo dava due direttive contraddittorie: di reagire alle violenze tedesche e della popolazione locale “in modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti”, ma di non prendere l’iniziativa “di atti ostili” contro i germanici. In sintesi l’indicazione era di “garantire comunque il possesso dei porti principali, e specialmente quelli di Cattaro e Durazzo” e di concentrare le forze, riducendo gradualmente l’occupazione delle zone “come ritenuto possibile”. I tedeschi invece si mossero subito la sera dell’8 settembre e fra il 9 e il 19 riuscirono ad assumere il totale controllo dei porti e dei centri più importanti. Inoltre, negli stessi giorni avevano iniziato a far affluire nuove truppe in Albania, fino a quel momento di scarsa entità, interrompendo le linee di comunicazione e telefoniche, e disarmando i molti presidi isolati. Il crollo dei comandi di divisione e la disintegrazione dei reparti italiani furono quasi immediati. Le vicende che portarono ad una tale situazione di sfacelo sono ancora oggi oggetto di approfondimento. Ad esempio ci sono diverse testimonianze sul comportamento ambiguo del comandante della divisione “Brennero”, il generale Princivalle, che avrebbe invitato gli ufficiali e i militari da lui dipendenti a combattere accanto ai tedeschi, sostenendo che “si doveva aderire all’esercito tedesco al fine di raggiungere l’Italia; là ciascuno si sarebbe comportato come avrebbe dovuto”.
Caso emblematico è quello della divisione “Parma”, comandata dal generale Lugli, che presidiava i cruciali settori di Valona e di Porto Edda, dove la divisione se organizzata, avrebbe anche potuto tentare di concentrarsi per tornare via mare in Italia. Il generale Lugli alla prima richiesta dei tedeschi di disarmare la divisione rispose che mai avrebbe ceduto le armi. Egli si dichiarò invece disponibile di fronte alla richiesta di collaborazione presentatagli dal rappresentante della missione inglese che operava con i partigiani albanesi. Purtroppo, costretto a cedere le armi pesanti, l’ufficiale quasi inavvertitamente si trovò prigioniero dei tedeschi, impotente di fronte al loro comportamento sempre più aggressivo e isolato dalle sue truppe. Soltanto le divisioni “Firenze” e “Perugia” nei giorni seguenti all’annuncio dell’armistizio riuscirono a sfuggire al disarmo e al successivo internamento da parte tedesca. Il generale Azzi, comandante della divisione “Firenze”, forte di 9 mila uomini, rifiutò di farsi disarmare dai tedeschi o di cedere le armi all’esercito di liberazione nazionale albanese. Nei giorni immediatamente seguenti all’armistizio Azzi cercò di coordinare un’azione comune con il generale Dalmazzo e con la divisione “Brennero” per conquistare Tirana ma il tentativo fallì. Ma riuscì comunque a stabilire un accordo con il comando partigiano albanese, rappresentato dallo stesso Enver Hoxha. Con l’ELna fu creato un apposito comando detto delle “Truppe della montagna”, con a capo lo stesso generale Azzi. Questo comando era incaricato di organizzare, con l’aiuto degli albanesi, le truppe italiane che erano arruolate nelle unità partigiane albanesi e di interessarsi degli altri italiani che si trovavano presso le famiglie albanesi. I soldati italiani furono ben accolti nelle file dei reparti partigiani albanesi e diventarono un tutt’uno con questi ultimi. Il generale Azzi fu rimpatriato dalla missione inglese nel giugno del 1944, dopo aver affidato il comando delle Truppe italiane di montagna al generale Gino Piccini.
Particolarmente drammatiche furono invece le vicende della divisione “Perugia” che cercò di trovare una via di salvezza vagando per i monti e le coste albanesi e combattendo contro i partigiani e contro i tedeschi fino all’inizio di ottobre 1943. Dopo aver subito numerose perdite, alla fine la divisione dovette arrendersi ai tedeschi che uccisero tutti gli ufficiali e deportarono i soldati superstiti.
A distanza di più di settant’anni, quel periodo e tutto quello che avvenne allora alle migliaia di militari italiani, le peripezie, le sofferenze, il dramma, i momenti di paura, di ansia e di disperazione che conobbero sembrano oggi come un sogno. Ma per coloro che vissero quei momenti e quegli avvenimenti, italiani e albanesi, furono e rimangono una grande realtà e un esempio di elevata umanità.

Il programma è in corso di diramazione e sarà pubblicato su "Quaderni On Line" quanto prima

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