APPROFONDIMENTI
Te. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto
Sabetta
Con la fine della Guerra Fredda, la
guerra del Golfo del 1991 riportò l’attenzione sulla strategia militare e sulla
geostrategia, quale applicazione alla gestione politico-militare delle crisi
internazionali.
Il progressivo passaggio dai conflitti
“convenzionali” verso conflitti ad “alta intensità” ripropose il problema
strategico della operatività in sede interforze, in contrapposizione alla
precedente valutazione degli interventi di mantenimento della pace (peacekeeping) in aree fuori dall’Europa
a livelli di “bassa intensità”, in cui a suggello dell’impegno politico tra le
parti erano sufficienti forze militari poco più che simboliche.
In questi interventi “fuori area” la
presenza militare poteva limitarsi alla sola Forza Armata terrestre, in quanto
l’impegno militare non avrebbe dovuto trasformarsi in scontro armato ossia in
guerra.
La geostrategia, che coniuga geografia
e strategia, va integrata dal ruolo della “minaccia”, fondamentale per un Paese come l’Italia in
cui l’assetto geografico peninsulare nel centro del Mediterraneo lo pone quale asse
strategico tra tre Continenti e sulla rotta del canale di Suez, circostanza che
lo pone al centro di interessi contrastanti.
La “minaccia” va quindi considerata in
rapporto al quadro geopolitico circostante e al ruolo che l’Italia vuole
assolvere nel quadro di una dimensione geostrategica.
Il Paese a causa della sua
configurazione geografica e per motivi storici, politici ed economici risulta
per la parte settentrionale inserita al centro dell’Europa, anche se separata
in chiave militare nella dimensione tattico-operativa, mentre nella parte
peninsulare risulta proiettata verso l’Africa e il Medio Oriente.
Questo comportò, al venir meno della
minaccia del Patto di Varsavia, una ridefinizione del suo ruolo e pertanto
della sua dimensione tattico operativa con la conseguente ridefinizione del
modello di Forze Armate.
Nell’impossibilità di privilegiare
delle posizioni neutralistiche che la stessa condizione geostrategica
dell’Italia non consente, occorreva quindi l’individuazione di precisi
obiettivi nazionali da perseguire quali direttrici di azione da seguire. La
politica estera come nel passato era stata impostata sulla scelta atlantica ed
europea e nello sviluppare e consolidare i rapporti con i Paesi mediterranei,
anche nel dopo Guerra Fredda, vi è stata la necessità di riconfermare tale
filosofia di sicurezza nazionale, integrando nel dialogo Est-Ovest anche quello
Nord-Sud.
A queste direttrici si devono
aggiungere gli intendimenti in termini di strategia economico-finanziaria,
anche in relazione alle aspettative degli Stati emergenti e dei principi
sostenuti dall’Italia sul piano internazionale, dal rispetto di tali parametri
si definisce l’equazione sicurezza-stabilità in contrapposizione al binomio in
sicurezza-vulnerabilità.
Durante il periodo della Guerra Fredda
per un insieme di fattori politici, culturali e storici vi è stato un
progressivo disinteresse per tutto quanto quello che riguardava la politica di
sicurezza, anche in chiave esclusivamente pragmatica, la contrapposizione tra
blocchi della Guerra Fredda ha indotto ad impostare una politica della
sicurezza e quindi della gestione delle crisi in termini prevalentemente
episodici ed emozionali.
Con il venir meno della
contrapposizione tra blocchi sono emersi
chiaramente problemi di sicurezza affrontati
in un’ottica contingente, secondo il modello del nostro Paese.
Durante tutto il periodo della seconda
metà del Novecento, dalla fondazione della Repubblica, “la politica di
sicurezza” suddivisa tra il Consiglio dei Ministri, il Consiglio Supremo di
difesa e la Commissioni parlamentari ha risentito, nelle sue scelte attuative,
della necessità di ottenere il più ampio consenso sulle scelte operative da
adottare, accogliendo il complesso quadro socio-politico non omogeneo della
Nazione.
Il Consiglio dei Ministri nella sua
composizione collegiale plenaria risultò essere meno adatto per decisioni
rapide in tema di politica di sicurezza, né si poté istituire un Gabinetto
ristretto più adatto ad ovviare alla lentezza delle decisioni a seguito di trattative.
A sua volta il Consiglio Supremo di
Difesa, sorto sulle ceneri del Comitato di Difesa (1945-50), non si dimostrò
adatto alle esigenze per il quale era stato creato a seguito di condizionamenti
di vario tipo, diventando, di fatto, un organo a matrice consultiva, questo a
differenza di altri Paesi occidentali in cui il Consiglio di Sicurezza, retto
dal Capo dei singoli Esecutivi risultarono avere una capacità gestionale e
programmatica maggiore.
Dalla pubblicazione del “Libro Bianco”
del 1985 la politica di difesa italiana si articolò su due direttrici, la prima
fino al 1989 impostata su uno schema strategico-operativo definito “modello di
difesa”, formulato in presenza di una minaccia “classica” chiaramente
predeterminata, questo, oltre stabilire le priorità difensive e gli
schieramenti delle forze nei vari settori operativi, ne codificava le precise
missioni operative fondamentali.
Ne conseguiva uno strumento
rigorosamente tridimensionale, equilibrato in funzione delle varie tipologie di
missioni ed alimentato prevalentemente da personale di leva relativamente alle
forze armate terrestri e agli elementi di base in generale.
La seconda direttrice iniziò a
definirsi dal 1989 a seguito delle profondamente mutate condizioni geopolitiche
e geostrategiche a seguito del venir meno della suddivisione del Vecchio
Continente in due blocchi contrapposti.
Il modello del 1985 aveva avuto il
merito di fornire ai centri decisionali politici dei modelli contabili concreti
per la previsione e ripartizioni delle risorse assegnate alla difesa,
sganciando da criteri distributivi legati ai programmi e dando valenza alle
missioni operative.
Con il 1989, il venir meno di una
precisa e definita minaccia derivante dal Patto di Varsavia pose in evidenza
l’incertezza del ruolo che avrebbe dovuto svolgere l’Italia e del peso ad essa
attribuito sia nell’ambito della NATO che nel contesto internazionale.
In assenza di precisi parametri
geopolitici e geostrategici non si poteva che concentrarsi su specifici mandati
operativi atti a contrastare le singole
minacce che si manifestavano progressivamente nel tempo, ossia sulle missioni
interforze.
La configurazione per missioni
operative avrebbe dovuto essere accompagnata da indispensabili strutture di
comando unificato, circostanza non realizzatasi, in quanto in contrasto con la
compartimentazione di fatto in tre Forze Armate che non risultavano nei fatti
coordinate nello Stato Maggiore della Difesa.
Il venir meno dei due blocchi
contrapposti richiamarono la necessità del concetto di sicurezza inteso in
senso globale e non più settoriale, con connotazione prevalentemente militare,
un parametro, quello della sicurezza, molto più pregnante di quello tutto
sommato meno verificabile della minaccia. Dobbiamo infatti considerare la
triplice natura continentale, mediterranea ed internazionale che l’Italia deve
acquisire nelle sue valutazioni.
Con gli aspetti più prettamente
militari il concetto di sicurezza nazionale doveva essere ricondotto a tre
enunciati principali:
·
Controllo e
difesa integrati nel territorio, delle acque territoriali e del relativo spazio
aereo;
·
Salvaguardia
degli interessi vitali del Paese, ovunque, nonché partecipazione ad iniziative
tendenti a garantire pace e stabilità internazionale;
·
Concorso nel
campo della protezione civile e nell’eventuale salvaguardia delle libere
istituzioni.
Nella necessità di aumentare le forze “volontarie” e
nella conseguente necessità di un tempo di preparazione si ricorse ai
coscritti, in questo si fece presente che la durata di 12 mesi costituiva lo
strumento di minima credibilità della leva.
Si definì la struttura e le forze necessarie per una
valida operatività, in particolare:
- un nucleo di forze ad elevata prontezza operativa,
in grado di intervenire in tempo reale;
- un complesso di forze definite in senso lato “di
copertura”, pronte per la difesa dello scacchiere Nord-Est a saldatura con lo
scenario politico-strategico del centro Europa e in particolare con la Germania;
- un blocco di
forze “dell’interno”in grado di proteggere e controllare il territorio
peninsulare ed insulare;
- un’area territoriale e logistica proporzionale con
il complesso di forze operative con un’organizzazione scolastico - addestrativa
adeguata alla professionalizzazione dell’apparato militare.
Nella configurazione delle nuove Forze Armate prevalsero tre considerazioni:
-
L’identificazione
della Brigata quale unità di riferimento, in quanto fornita di una maggiore
omogeneità e polifunzionalità che ne permetteva sia una immediata percezione
dei costi che una sua operatività.
-
Un riferimento
metodologico principalmente alle missioni operative.
-
Un preciso
riferimento al concetto di mobilitazione quali procedure complesse atte ad
alimentare le unità, in questo tenendo
conto dell’alto costo organizzativo, dell’esigenza di puntuali verifiche e
della necessità di un costante aggiornamento.
Si considerò quindi la necessità di disporre di 19
Brigate di varia tipologia di cui n. 7, quali “forze di copertura”, n. 7, quali
“forza di difesa e controllo del territorio”, e n. 5, quali forze di “pronto
impiego”.
Le “forze di copertura” avrebbero dovuto costituire la
credibile saldatura tra lo scenario dello scacchiere Nord-Est dell’Italia con
quello politico-strategico del centro Europa, con particolare riguardo alla
Germania, per le possibili minacce provenienti da Est, questo in situazioni di
scarso preavviso e con la necessità di un arresto a ridosso della frontiera.
Costituito prevalentemente da personale di leva
operante in territorio nazionale, secondo il dettame costituzionale, esso
avrebbe dovuto essere costituito da n. 3 Brigate alpine destinate a
fronteggiare la minaccia proveniente dal settore Brennero, da quello di
cerniera Carnico e da quello Giulio montano.
A queste si sarebbero dovute affiancare n. 4 Brigate,
di cui n. 3 meccanizzate ed una corazzata, al fine di fronteggiare la minaccia
proveniente da Est relativa alla penetrazione nella pianura veneto-friulana, il
settore di pianura di un’ampiezza di circa 60 Km. necessitava di una elevata
capacità di manovra e potenza di fuoco da svilupparsi in profondità, inoltre
avrebbero dovuto fornire eventuali unità per il restante comparto orientale
nell’eventualità di possibili sbocchi in pianura di forze nemiche in
corrispondenza dei settori assegnati alle brigate alpine.
Le brigate sopra menzionate avrebbero dovuto ricoprire
il duplice ruolo nazionale di guardia alla storica porta di accesso all’Italia
da Est, a cui si affiancava la funzione continentale di protezione del lato Sud
del sistema difensivo terrestre europeo, costituito dal fronte germanico e di
accesso alla Manica.
Le “forze di difesa e controllo dell’interno”
avrebbero dovuto essere costituite da n. 7 Brigate, di cui n. 1 motorizzata,
destinata al controllo delle fasce di comunicazione che legano il triangolo
industriale via terra alla Francia e via mare al sistema portuale ligure per le
grandi rotte oceaniche di alimentazione, n. 1 motorizzata, per il controllo
delle vie di comunicazione tra l’Italia settentrionale e quella peninsulare
attraverso i passi dell’Appennino Tosco-Emiliano e la Stretta di Cattolica, n.
1 meccanizzata per il controllo e l’eventuale difesa dell’area Centro - Italia
dove vie è la presenza della capitale e delle basi aereonavali proiettate
sull’Alto Tirreno.
Altre n. 2 Brigate, di cui una motorizzata e l’altra
meccanizzata con compiti di presidio del complesso Campania - Puglia, e n. 2 entrambe
motorizzate per il presidio rispettivamente della Sicilia e della Sardegna,
questo al fine di mantenere il controllo del Mediterraneo centrale e del
Tirreno quali vie di comunicazione e rifornimento.
Le Brigate poste a difesa e controllo dell’interno
avrebbero dovuto essere costituite prevalentemente da militari di leva, con una
percentuale minima dell’80% di personale adeguatamente addestrato.
Relativamente alle forze di “pronto intervento”, che
venivano a completare gli altri due settori operativi costituite da n. 5
Brigate, queste avrebbero dovuto essere in grado di intervenire sia in ambito
nazionale al fine di integrare le forze di copertura e quelle di controllo e
difesa dell’interno, che in ambito sovranazionale per l’assolvimento di
missioni legate ad interventi “fuori aria” e per l’inserimento in complessi
multinazionali.
Al fine di mantenere un elevato livello operativo si
ritenne necessario di ricorrere ad un ampio volontariato, di qualità ben
superiore a quello esistente precedentemente, considerando la necessità di
poter iniziare un combattimento immediato e muovendosi su ampie distanze in
relazione al mandato ricevuto.
Queste brigate dovevano articolarsi in n. 1,
paracadutista , di ampia flessibilità e rapidità d’azione, n. 1, alpina adatta
a particolare condizioni ambientali sia nel territorio nazionale che
all’estero, n. 2, di cui una corazzata ed una meccanizzata, braccio “pesante”
della forza, necessaria per conferire credibilità alle azioni di difesa e
necessaria a sostenere eventuali scontri armati, n. 1, blindata, per la
rapidità di movimento sulle grandi distanze e la potenza necessaria a sostegno
della fanteria leggera.
Ipotizzando che la Brigata di “copertura” e di “difesa-controllo
del territorio nazionale” potessero assorbire 4.000 unità ciascuna e quelle di
“pronto intervento”, circa 5.000 uomini le forze necessarie avrebbero dovuto
essere di circa 80.000 uomini, di cui le metà rappresentata da volontari,
concentrati per la maggior parte sulle forze di pronto intervento.
A queste forze devono aggiungersi 10.000 uomini
necessari per alimentare il funzionamento dell’artiglieria contraerea e
dell’aviazione leggera dell’esercito, a questi vanno inoltre aggiunte le unità
di personale necessarie nell’organizzazione
di Comando e Controllo, nonché di supporto tattico e logistico, l’ammontare
reale delle forze operative in questa configurazione prevista avrebbe dovuto
essere in totale di circa 130.000 unità, di cui 40/50.000 volontari.
Gli avvenimenti che si sono succeduti al dissolvimento
del Patto di Varsavia a cavallo del Nuovo Millennio hanno condotto all’assoluta
prevalenza USA degli anni Novanta di fine secolo, per ribaltarsi nell’attuale
incertezza a seguito dei conflitti in atto per ridefinire le nuove aree di
influenza.
E’ venuta meno la certezza di essere comunque
affiancati dagli USA in tutti i teatri operativi, richiamando quindi la
necessità di un maggiore impegno finanziario nel riarmare le Forze Armate.
La stessa leva, sospesa dal 2005 in tempo di pace, è
stata richiamata come possibilità per aumentare l’operatività delle Forze
Armate, una decisione tuttavia politicamente non premiante oltre che complessa
organizzativamente, considerando tutti i teatri operativi attualmente in
crescita, compresi i conflitti nell’Est Europa e nel Mediterraneo.
Se per ottenere i nuovi sistemi di arma e i materiali
ci vorranno tra i 5 e i 15 anni, per “cambiare
la mentalità di un sistema e la cultura politico-strategica del nostro Paese,
infine, sarà un processo ancora più lungo, complesso e incerto, a meno che non
si verifiche un grosso shock. Specialmente per noi italiani, tra i quali è già
affiorata la tentazione di
trasferire al più presto la delega a
proteggerci esercitata dagli Stati Uniti, che non vogliono più assumersi questa
responsabilità, a un’Europa nella quale sarà difficile trovare interlocutori
più sensibili di noi alla salvaguardia dei nostri interessi nazionali”
(189, Germano Dottori, L’Italia riarma lentamente, in Limes, Una certa idea di
Italia, 2/2024).
Nota
Scuola di
Guerra – Ipotesi di riconfigurazione
dell’Esercito nel quadro delle nuove esigenze della sicurezza nazionale - Bollettino
di informazione, maggio 1991
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